«Criminal», le ambizioni della serie sugli interrogatori polizieschi
L’ esperimento è originale e innovativo, la resa appare ancora poco omogenea e con alcune lacune da colmare. «Criminal» è una serie antologica realizzata da Netflix che ha un obiettivo di fondo semplice ma ambizioso; raccontare il mondo degli interrogatori polizieschi in quattro Paesi europei (Gran Bretagna, Spagna, Francia, Germania) senza mai uscire dalla stessa stanza.
Di fatto, si tratta di un approccio comparativo in cui la sfida principale consiste nel cogliere le sfumature e le differenze che caratterizzano ciascun contesto nazionale. Ideata da Kay Smith, «Criminal» spinge all’eccesso le tecniche del procedural, portando lo spettatore dentro uno schema narrativo in cui i fatti e le vicende non si compiono in maniera palese ma vengono ricostruiti passo dopo passo dai dialoghi serrati tra investigatori, imputati e avvocati di questi ultimi.
La serie è composta da tre episodi per ciascun Paese; cambiano i protagonisti ma resta intatta l’ambientazione: la sala insonorizzata, gli investigatori che guardano attraverso il vetro, il corridoio dei passi perduti. Con un setting così statico ed essenziale, assumono importanza le performance attoriali; ed è qui che «Criminal» mostra i difetti principali. Eccellente David Tennant nel ruolo dell’imputato nel primo episodio del capitolo britannico, così come convince Emma Suarez nel ruolo di un’investigatrice spagnola dai metodi spicci e non sempre impeccabili; il resto delle storie e dei personaggi, al contrario, non sembra mostrare la stessa efficacia. Ciò che sorprende, nell’operazione «Criminal» e più in generale nell’approccio di Netflix al genere, è la tendenza ad affrontare il crime in una prospettiva più «di parola» che d’azione; come già in «Mindhunter», che pure raggiunge vette narrative decisamente più alte, la suggestione sta nell’indagare il vissuto dei criminali e nelle tecniche investigative più sottili per farlo emergere e portarlo allo scoperto.