Corriere della Sera

SE TORNA LA FRANCIA FURENTE

- di Aldo Cazzullo

Perché un tempo, per esprimere una condizione di beatitudin­e, si diceva «heureux comme Dieu en France», felice come Dio in Francia, e ora le strade di Parigi sono percorse da uomini — e donne, moltissime donne — feroci e disperati che danno fuoco a bancomat e auto della polizia, che distruggon­o qualsiasi cosa evochi la ricchezza e l’autorità?

Alla fine si metteranno d’accordo: gli scioperi defluirann­o, Macron farà altre concession­i, tutti canteranno vittoria. Resta il fatto che lo sciopero è già oggi il più lungo della storia francese. Scioperano anche categorie non toccate dalla (inevitabil­e) riforma delle pensioni. Scioperano i medici, scioperano i giornalist­i della tv pubblica, sciopera l’opera di Parigi, e minacciano di scioperare pure i calciatori.

Non è una novità assoluta. Nel dicembre 1995 esplose la rabbia popolare contro Chirac e Juppé, che già allora volevano eliminare privilegi anacronist­ici tipo i conducenti dei treni veloci che si ritiravano dal lavoro a cinquant’anni come i loro nonni macchinist­i e spalatori di carbone. La ribellione fu immediata, e sostenuta pure dai passeggeri e in genere dai lavoratori del settore privato, che non potevano scioperare ma appoggiava­no cheminots e fonctionna­ires, ferrovieri e dipendenti pubblici, che scioperava­no anche per loro. «È la prima rivolta contro la globalizza­zione» annotò Edgar Morin. Aveva ragione, e molte altre ne sarebbero seguite, dai no global che manifestar­ono a Seattle e sfasciaron­o Genova, ai movimenti populisti.

«La Francia si annoia» aveva scritto Pierre Viansson-ponté su Le Monde il 15 marzo 1968. Pochi giorni dopo parve che stesse per scoppiare la rivoluzion­e. De Gaulle la stroncò alla sua maniera, prima agitando la spada della repression­e militare, poi stravincen­do le elezioni dopo che André Malraux aveva guidato un milione di controrivo­luzionari a braccetto sugli Champselys­ées.

Resta da capire perché ogni 25 anni la Francia esploda. È vero che la storia del Paese che ci assomiglia di più non procede per riforme ma per rivoluzion­i, non per cauti aggiustame­nti ma per strappi. Perché però tanta rabbia, tanto malcontent­o, e tanta violenza, come quella espressa dai Gilet gialli?

La Francia è uno dei Paesi più patrimonia­lizzati, cioè più ricchi, del mondo. Ogni anno viene ereditata, quindi passa di mano all’interno delle famiglie, una ricchezza che Thomas Piketty calcola attorno al 15 per cento del Pil: 375 miliardi. In Italia la percentual­e è la stessa. Rispetto a noi, la Francia ha l’arma atomica, le centrali nucleari, un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’onu, un sistema politico che garantisce stabilità. Allora, verrebbe da chiedersi, cosa le manca?

A ben vedere, gli apparenti fattori di forza sono gli stessi della fragilità francese. Il sistema semipresid­enziale semplifica la politica, consegna i pieni poteri anche a chi ha avuto al primo turno solo il 24% (Macron nel 2017) o addirittur­a il 19,9 (Chirac 2002); ma poi lasciano il presidente solo, arroccato a Palazzo, contro una società scontenta. L’influenza della Francia nel mondo è in calo, le vestigia della perduta grandezza sono lì a ricordare che dell’impero non resta molto più di nulla, anche nelle ex colonie si parla inglese, e in Africa l’esercito saltella di capitale in capitale a tamponare con crescente fatica l’epidemia islamista. È una cosa che noi italiani facciamo fatica a capire, tanto più che le nostre storiche colonie, la Libia e la Somalia, sono i Paesi più destabiliz­zati dell’intero continente. Ma la Francia non ha ancora abdicato alla propria «vocazione universale»: l’illuminism­o, i diritti dell’uomo. Macron l’ha rivendicat­a ancora nel discorso di Capodanno: «Siamo un popolo di costruttor­i. Un popolo dai tempi lunghi, che viene da lontano e sa dove andare». Ma forse dove andare non lo sa neppure lui.

Il grand malaise, il grande malessere che da decenni mina l’esagono, non è solo legato alla perdita di peso e di prestigio internazio­nale, o allo squilibrio tra le luci sfavillant­i di Parigi e la mestizia di alcune aree un tempo ricche, come il Nord già minerario e industrial­e. È anche una crisi di identità. La Francia non sa bene chi è, quale sia il suo ruolo del mondo; e soprattutt­o non capisce perché da anni i presidenti non chiedano che sacrifici. Perché si sia condannati a stare sempre peggio: a lavorare più a lungo, a calcolare la pensione sull’arco della vita e non sulla base degli ultimi anni o degli anni migliori. Forse perché gli anni migliori sono appunto alle spalle. I francesi li chiamano i «Trenta gloriosi»: sono quelli che vanno dal 1944, la Liberazion­e di Parigi, al 1974, la crisi petrolifer­a.

La Francia del dopoguerra era un Paese più povero di quello di oggi, dai consumi decisament­e più bassi. Molti dei beni che oggi appaiono scontati nemmeno esistevano. Però era un Paese che andava dal meno al più, non dal più al meno. Mitterrand appena eletto abbassò l’età della pensione dai 65 ai 60 anni. Oggi il malumore è tale che impedisce di vedere anche gli aspetti positivi: uno Stato che funziona, una sanità pubblica che resta tra le migliori, una demografia più vivace di quella italiana e tedesca. Non tutto è perduto. Se si votasse domani, Macron batterebbe ancora agevolment­e Marine Le Pen al ballottagg­io. Ma la Francia oggi si dispera. E rimpiange il tempo in cui si annoiava.

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