I ragazzi migliori fuggiti dall’africa verso l’europa
Laurent e gli altri minori che fuggono in Europa «Se sono istruiti, a casa loro non hanno chance»
La crescita dei Pil di alcuni Paesi africani non ha quasi creato occupazione: più istruzione ma meno lavoro.
Laurent è l’ultimo di tanti. E lo ricorderemo per i suoi 14 anni e la sua fine atroce nel gelido vano carrello di un aereo in volo da Abidjan a Parigi. Ma, secondo l’unhcr, tra il 2014 e il 2017, al culmine della grande crisi migratoria, su un milione e 800 mila profughi arrivati in Europa, 433 mila erano bambini o ragazzini. Stando al più recente rapporto dell’istituto Ismu, 40 mila minori non accompagnati sono approdati in Italia tra il 2016 e il 2017: e quasi 1.500 proprio dalla Costa d’avorio, patria di Laurent, soltanto nel 2017, nota l’ong italiana CEVI.
Perché scappano i giovani africani? «Un 80% è mosso dalla speranza di migliori prospettive economiche o sociali», spiega l’ultima analisi dell’ibrahim Forum Report. E, sì, sembra banale se non ci si approssima a guardare più da vicino quelle storie fuggiasche, sospese tra il respiro del mondo altrove, inalato nel web, e la morsa di società insieme immobili e terrificanti.
Classi da 115 scolari
Così, Laurent Ani Guybailly, che la sera del 6 gennaio non torna nella sua baracca da 15 metri quadri a Yopougon (il sovraffollato quartiere popolare di Abidjan dove viveva con padre, matrigna e fratellastri) e prova a saltare su un futuro diverso aggrappato al volo 703 dell’air France, ci svela molto di questa realtà con la sua morte ma forse ce ne dice assai di più con la sua vita, «tanto breve da non avere visto nulla del 2020», ha sussurrato ai cronisti locali la sua compagna di classe Yasmine. Come il ragazzino del Mali annegato nel Mediterraneo con la pagella cucita nella giacca quale lasciapassare per il nostro mondo, anche Laurent era uno studente: timido, magrolino, quarta classe del liceo Simone Gbagbo di Yopougon, bravo in fisica e matematica, un’insufficienza in francese alla fine del primo trimestre. Dicono che qualche passatore gli abbia montato la testa al cybercaffé di fronte, dove trascorreva ormai troppo tempo bigiando la scuola: «Preparava la fuga da settimane». Basta un’occhiata alla foto scolastica per intuirne buone ragioni di inquietudine: 115 studenti per classe, fino a quattro o cinque per banco, in un istituto da 7.000 allievi divisi in due turni. Fuori da quella bolgia di aula, un Paese che torna pericolosamente in bilico, dopo gli anni delle guerre civili e degli scontri tra le 60 etnie, all’avvicinarsi delle elezioni di ottobre tra candidati e sponsor pronti a combattersi senza quartiere come dieci anni fa.
Generazione perduta
Un Paese paradossale, con un Pil che cresce all’8%, materie prime contese tra le potenze del mondo, il 40% della popolazione sotto la soglia di povertà: il quarto Paese per provenienza di migranti sbarcati sulle coste del Mediterraneo, 30 mila solo da noi in Italia.
Laurent è un caso politico in patria, è un ceffone assestato alla narrazione ottimista del presidente Ouattara, economista del Fondo monetario internazionale e beniamino dei francesi. Ma è un fardello con cui dobbiamo confrontarci anche da questa parte del Mediterraneo. Dall’africa si scappa per guerre e fame, certo, ma forse si scappa di più per amarezza e delusione.
Il Dataroom di Milena Gabanelli racconta che negli ultimi sei anni il 60% dei migranti africani viene da Paesi a reddito pro-capite non bassissimo per gli standard del continente (tra i mille e i 4 mila dollari l’anno) e solo il 5% dai Paesi più poveri. Paradossalmente, per sognare una vita migliore bisogna averne già almeno una parvenza.
Dunque, l’ibrahim Forum Report si domanda se l’africa sia «sul punto di perdere i propri giovani» (il 60% della popolazione ha meno di 25 anni): «Troppi si sentono privati di prospettive economiche e derubati del futuro». La crescita impetuosa dei Pil non ha quasi creato occupazione, «più i ragazzi sono istruiti e meno hanno probabilità di trovare lavoro nel loro continente», «la rabbia li porta a rischiare di morire nel Mediterraneo». Secondo la Gallup, 40 Paesi africani vivono pesanti perdite nella popolazione giovanile: Sierra Leone il 78%, Liberia il 70%, Nigeria il 57%. In Africa il terrorismo è ormai una routine che si misura in una crescita degli attacchi del 1.000% in dieci anni. Ma è anche una prospettiva di lavoro, se è vero che il 27% di chi si è unito agli Al-shabaab in Somalia afferma di averlo fatto per «ragioni economiche» e che una ricerca di Mercy Corps in Nigeria mostra che le medesime motivazioni hanno spinto molti ragazzi verso Boko
Haram. La storia del ragazzino di Yopougon che, dicono i compagni, voleva «visitare la Tour Eiffel» e «si esercitava a parlare con l’accento dei Bianchi», apre infine grandi squarci sull’africa: il modello ivoriano di un uomo forte che, benedetto dalla comunità internazionale, congeli diritti e democrazia in cambio di una parvenza di ordine è un archetipo della decolonizzazione malata del continente. Ma, finché l’europa non avrà preso coscienza della questione africana, non si intravedono molte cure in atto, se non la paziente opera di prossimità praticata da Ong e volontariato (assai spesso cattolico).
Le Ong italiane
In Costa d’avorio se ne trova un bell’esempio a Bouaké, dove l’italiana Avsi riempie esattamente lo spazio vuoto della grande delusione africana: con campagne per scoraggiare l’emigrazione irregolare basate su formazione professionale, sostegno a microimprese, una rete di 50 organizzazioni
Il paradosso
La crescita impetuosa del Pil di molti Paesi non ha quasi creato occupazione
locali per sradicare le cause dei conflitti tra allevatori e agricoltori. Fatti, servono fatti concreti. Quando, alla commemorazione di Laurent, il preside del liceo ha ammonito i suoi studenti dicendo «non tentate queste avventure, la felicità non è altrove, si trova qui», quelli hanno guardato le pareti scrostate, i banchi marci, e hanno sorriso cupi «come no, proprio qui!». Poi hanno ricominciato a sognare un altro mondo.
Terroristi in Somalia
Il 27% di chi si è unito agli Al-shabaab dice di averlo fatto per ragioni economiche