«Saipem-algeria niente tangenti»
Milano, in Appello sentenza ribaltata. Confermati i proscioglimenti di Eni e Scaroni
MILANO Non è stato sufficiente alla Procura di Milano prospettare la singolarità nel 2007-2010 del pagamento di Saipem di 197 milioni di euro di consulenza ad una società di Hong Kong vuota di tutto meno che dello stretto legame tra il suo titolare francoalgerino Farid Bedjaoui e l’allora ministro algerino dell’energia, Chekib Khelil. E neppure è giovato valorizzare il fatto che la moglie del ministro avesse la procura a operare su un conto bancario americano a nome di quel fiduciario svizzero-marocchino (Omar Habour) che dal mediatore Bedjaoui aveva ricevuto decine di milioni di dollari su conti in Libano e Svizzera; né che la moglie del ministro avesse utilizzato quella procura bancaria ad esempio per acquistare per sé e per il marito due appartamenti nel Maryland (Stati Uniti) nel giugno del 2008. «Non si può pretendere — aveva provato ad argomentare ieri in aula in extremis il pg Massimo Gaballo — di chiederci la prova che ogni banconota arrivata al ministro avesse il timbro del cane a sei zampe, altrimenti sarebbe un po’ come nel paradosso di Zenone, con Achillepm che non può raggiungere mai la tartaruga-prova di corruzione».
E invece il richiamo alla norma sulla «prova insufficiente o contraddittoria», con il quale la II Corte d’appello milanese ieri ha assolto tutti gli imputati di Saipem e della controllante Eni «perché il fatto non sussiste», segnala che per i giudici a mancare è proprio la prova certa della ricezione, da parte di politici algerini, dello specifico denaro pagato da Saipem per la «mediazione» di Bedjaoui nel cercare di superare l’allora ostracismo del governo algerino e dell’ente petrolifero statale Sonatrach verso Saipem in 8 contratti del valore di 11 miliardi di dollari.
La conseguenza è che la Corte d’appello cancella le condanne di primo grado nel 2018 della persona giuridica Saipem alla sanzione pecuniaria di 400 mila, del suo ex amministratore delegato Pietro Tali a 4 anni e 9 mesi, dell’ex direttore finanziario (poi pure di Eni) Alessandro Bernini a 4 anni e 1 mese, e dell’ex direttore operativo Pietro Varone a 4 anni e 9 mesi, così come cancella i 5 anni e 5 mesi a Bedjaoui, e i 4 anni e 1 mese al suo braccio destro Samyr Ouraied e a Omar Habour.
Per Saipem — difesa dai professori Paola Severino e Angelo Giarda (con il figlio Enrico che saluta «una sentenza storica che non ci aspettavamo ma in cui abbiamo sempre creduto, ora Saipem non dovrà più mettere a bilancio accantonamenti dovuti all’ipotetico rischio») — il verdetto vale anche la preziosa revoca della confisca in primo grado di 197 milioni come prezzo della corruzione. E tripla è l’esultanza di Bedjaoui, giacché incassa assoluzione, revoca della confisca come profitto di reato dei suoi 165 milioni sequestratigli da anni dal pm Isidoro Palma su conti esteri di mezzo mondo, e revoca del mandato d’arresto che dal 2013 ne inseguiva la latitanza a Dubai.
La Corte presieduta da Giuseppe Ondei (tra i più probabili candidati a fine anno alla presidenza dell’intero distretto milanese), con il relatore Maurizio Boselli e il consigliere Edoardo Veronelli, conferma poi l’assoluzione già in primo grado della persona giuridica Eni, del suo ex amministratore delegato Paolo Scaroni (vicepresidente della banca d’affari Rothschild e presidente del Milan) e dell’allora responsabile Eni in Nord Africa, Antonio Vella. In Tribunale nel 2018 i giudici Turri-ambrosino-filiciotto avevano ravvisato che Eni non fosse consapevole della tangente pagata da Saipem; ora invece i giudici d’appello, che escludono proprio l’esistenza della tangente Saipem, preliminarmente dichiarano l’«inammissibilità» giuridica del modo in cui il pool del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale aveva fatto ricorso contro l’assoluzione di Eni.
Se infine si ricorda che l’ex presidente di Saipem Algeria, Tullio Orsi, nel 2015 scelse di patteggiare 2 anni e 10 mesi proprio per quel reato di corruzione internazionale che ora «non sussiste» ad avviso della sentenza d’appello, la tripletta 1-x-2 alla schedina giudiziaria può dirsi completata (patteggiamento in indagine, mezza condanna e mezza assoluzione dei coimputati in Tribunale, assoluzione di tutti in Appello). E se la Cassazione confermerà che «il fatto non sussiste», Orsi potrà (come accaduto di recente ai figli di Salvatore Ligresti nel caso Fonsai) chiedere la revisione e l’annullamento del proprio patteggiamento.
Il caso Orsi
Nel 2015 l’ex dirigente Orsi aveva patteggiato Adesso per i giudici la corruzione non esiste
Le reazioni
La difesa esulta: «Sentenza storica» Revocata la confisca di 197 milioni