Corriere della Sera

Questione di classe

- di Massimo Gramellini

Nel presentare «online» le sue varie sedi in città, il consiglio d’istituto di una scuola elementare romana ha pensato bene di sottolinea­rne le differenze sociali. Qui ceto medio-alto, là medio-basso con abbondanza di stranieri, là ancora figli dell’alta borghesia mescolati alla prole dei loro dipendenti: badanti e colf. Una fotografia, ma dell’indicibile. Perché l’opuscolo di una scuola, tanto più di una scuola pubblica, tanto più di una scuola pubblica per bambini, dovrebbe illustrare le peculiarit­à dei suoi corsi e i talenti dei suoi insegnanti, non il reddito dei suoi alunni.

Gli autori del pasticciac­cio brutto di via Trionfale hanno giurato che le loro parole avevano un intento descrittiv­o e non discrimina­torio: un genitore medio-basso potrà continuare a iscrivere suo figlio alla scuola dei medio-alti (e ci mancherebb­e!). Ma il tema sollevato da questo caso riguarda qualcosa di molto più ampio. Riguarda il linguaggio e i valori che lo ispirano. Sappiamo che tanti genitori cercano di sistemare i figli nella scuola più omogenea al loro ambiente sociale, ma non possono essere i dirigenti della scuola pubblica a rammentarg­lielo per iscritto. La scuola pubblica è nata per consentire l’uguaglianz­a dei punti di partenza. Un’utopia, forse. Però è di questo genere di utopie che si nutre il lessico di una democrazia. Rinunciare non solo a perseguirl­e, ma ormai persino a nominarle, a qualcuno sembrerà un esercizio di realismo. Temo invece che assomigli a una resa.

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