Questione di classe
Nel presentare «online» le sue varie sedi in città, il consiglio d’istituto di una scuola elementare romana ha pensato bene di sottolinearne le differenze sociali. Qui ceto medio-alto, là medio-basso con abbondanza di stranieri, là ancora figli dell’alta borghesia mescolati alla prole dei loro dipendenti: badanti e colf. Una fotografia, ma dell’indicibile. Perché l’opuscolo di una scuola, tanto più di una scuola pubblica, tanto più di una scuola pubblica per bambini, dovrebbe illustrare le peculiarità dei suoi corsi e i talenti dei suoi insegnanti, non il reddito dei suoi alunni.
Gli autori del pasticciaccio brutto di via Trionfale hanno giurato che le loro parole avevano un intento descrittivo e non discriminatorio: un genitore medio-basso potrà continuare a iscrivere suo figlio alla scuola dei medio-alti (e ci mancherebbe!). Ma il tema sollevato da questo caso riguarda qualcosa di molto più ampio. Riguarda il linguaggio e i valori che lo ispirano. Sappiamo che tanti genitori cercano di sistemare i figli nella scuola più omogenea al loro ambiente sociale, ma non possono essere i dirigenti della scuola pubblica a rammentarglielo per iscritto. La scuola pubblica è nata per consentire l’uguaglianza dei punti di partenza. Un’utopia, forse. Però è di questo genere di utopie che si nutre il lessico di una democrazia. Rinunciare non solo a perseguirle, ma ormai persino a nominarle, a qualcuno sembrerà un esercizio di realismo. Temo invece che assomigli a una resa.