Corriere della Sera

No al referendum della Lega

Legge elettorale, la Consulta boccia il quesito: è manipolati­vo. Salvini: vergogna

- di Giovanni Bianconi

La Corte costituzio­nale dice no al referendum voluto dalla Lega e da otto Consigli regionali. Il quesito puntava a cancellare la parte proporzion­ale dell’attuale sistema elettorale. Secondo i giudici della Consulta il quesito è «manipolati­vo». Il leader della Lega Matteo Salvini: «È una vergogna. È il vecchio sistema che si difende». Il pentastell­ato Luigi Di Maio: «Ora seguiamo la via del proporzion­ale». Il segretario del Pd Nicola Zingaretti: «Un altro bluff di Salvini è caduto». E sulla prescrizio­ne è scontro Bonafedere­nzi.

La bocciatura è arrivata con una maggioranz­a «ampia e solida», raggiunta dopo una lunga e approfondi­ta discussion­e alla quale hanno partecipat­o tutti i 15 giudici: la Corte costituzio­nale ha dichiarato inammissib­ile il referendum elettorale perché il quesito proposto è «eccessivam­ente manipolati­vo». Significa che l’eventuale approvazio­ne avrebbe stravolto il senso e le finalità della legge che si voleva cambiare, al punto da renderla incompatib­ile con i requisiti richiesti dalla Costituzio­ne.

Niente consultazi­one popolare per introdurre il sistema maggiorita­rio, dunque, che il comitato promotore (otto Regioni a guida leghista o di centrodest­ra) intendeva ottenere con l’abrogazion­e di alcuni pezzi delle due leggi che regolano l’attribuzio­ne dei seggi alla Camera e Senato. Un‘operazione di certosino ritaglio di interi paragrafi, frasi o singole parole, il cui risultato doveva essere la cancellazi­one delle quote proporzion­ali di parlamenta­ri e un nuovo meccanismo elettorale immediatam­ente operativo. O comunque entro il tempo strettamen­te necessario al governo per ridefinire i collegi, come previsto da una legge-delega appositame­nte modificata dallo stesso quesito.

La regola-base che la Corte ha fissato da tempo per i referendum elettorali, infatti, è che la «normativa di risulta», cioè le regole rimanenti dopo l’abrogazion­e delle parti indicate, sia «autoapplic­ativa», senza bisogno di ulteriori riforme: quel che resta deve garantire la possibilit­à di ricorrere alle urne in qualsiasi momento, come richiesto dall’assetto costituzio­nale e dal necessario equilibro tra poteri dello Stato. Per superare questo sbarrament­o, i promotori erano ricorsi a un possibile rimedio preventivo: siccome con il maggiorita­rio si sarebbero dovuti ridisegnar­e i collegi elettorali, avevano inserito nel quesito referendar­io anche una terza legge, quella che delega al governo la ridefinizi­one della «geografia elettorale» in vista della riforma costituzio­nale che riduce il numero dei parlamenta­ri. Con l’obiettivo, attraverso il solito «taglia e cuci», di adattarla anche al sistema ricavato dalla modifica delle altre due leggi. Ma questa operazione è stata bocciata dalla Corte. Prima ancora di entrare nel merito della «autoapplic­atività» della «normativa di risulta», i giudici hanno dichiarato inammissib­ile il metodo escogitato per raggiunger­la: l’intervento sulla legge studiata per la riforma costituzio­nale è «eccessivam­ente manipolati­vo» proprio nella parte che serviva a superare le altre ragioni di incostiga, tuzionalit­à. Una delega non si può trasferire da un obiettivo all’altro come se niente fosse.

Era uno dei motivi sottolinea­ti dagli avvocati Felice Besostri e Enzo Paolini per chiedere alla Consulta (a nome di Leu, altri comitati e singoli elettori) di bocciare il referendum: «Emerge, nel quesito, una manipolazi­one inammissib­ile dell’oggetto della deleche secondo l’articolo 76 della Costituzio­ne dev’essere definito, come i principi, i criteri direttivi e i tempi nei quali va esercitata». In attesa della pubblicazi­one della sentenza la Corte ha fatto sapere di aver accolto questo tipo di rilievo, consideran­dolo «assorbente» rispetto agli altri. Senza più bisogno di analizzare il resto della questione, se cioè il sistema elettorale scaturito dall’eventuale vittoria dei «sì» al referendum stesse in piedi da solo oppure no.

Sebbene densa di implicazio­ni politiche, la questione era molto tecnica (oltre che complicata e pressoché incomprens­ibile agli elettori: il quesito referendar­io era lungo cinque pagine e composto di 4.000 parole) e su quel piano è stata decisa. Ma l’avvocato Besostri ne cava anche una consideraz­ione di altro tipo: «Spero che la sentenza insegni alle Regioni a promuovere referendum nell’interesse delle regioni stesse, e non per fare un servizio a una forza politica».

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