Corriere della Sera

LA GUERRA FANTASMA AI CORROTTI

Società e giustizia Otto italiani su dieci sono convinti che la situazione non sia cambiata rispetto ai tempi di Tangentopo­li. Eppure da mesi non c’è un pilota all’anac

- Di Gian Antonio Stella

«C osì come il pesce guizza sotto l’acqua e non è possibile verificare se stia bevendo acqua o meno, allo stesso modo non è possibile scoprire se i funzionari pubblici stiano rubando soldi per loro stessi». Figuratevi poi se l’acqua fosse torbida. Lo sostiene l’arthasastr­a, un antico trattato attribuito al filosofo, economista e pensatore indiano Chanakya. Citato ad esempio da due studiosi della corruzione, Lucio Picci e Alberto Vannucci, nel libro Lo zen e l’arte della lotta alla corruzione.

Sono parole consegnate a chi voglia ben governare fra il secondo e terzo secolo d.c. Ma sembrano scritte ieri a proposito della pretesa di tanti pubblici dirigenti d’essere esentati, ai livelli apicali e non solo a quelli inferiori, dall’obbligo di «rendere pubblici i dati reddituali e patrimonia­li». Dovere che «esiste per i parlamenta­ri dal lontano 1982», ricordava ieri nella sua lettera al Corriere il presidente «facente funzioni» dell’anac Francesco Merloni, senza che alcuno abbia mai «gridato allo scandalo».

È fondamenta­le, la trasparenz­a. Tanto più in un Paese come il nostro dove la percezione di vivere assediati dalla corruzione, stando all’ultimo ranking di Transparen­cy Internatio­nal, ci vede davanti a tutti gli altri Paesi europei meno la Grecia e quelli a lungo dominati dal socialismo reale. Dove le interditti­ve antimafia ogni 100.000 abitanti sono salite dal 2014 ad oggi passando da 12 a 43 nel Nord-est e da 19 a 73 nel Nord-ovest.

D ove perfino gli appalti per i lavori al ministero dell’economia sfociano in una decina d’arresti a Roma mentre altre tangenti fanno scattare le manette ai polsi dei direttori generali di due grandi aziende pubbliche milanesi e un prefetto calabrese.

Per non dire di quanto accade in Sicilia dove l’inchiesta sulla mafia dei pascoli e le truffe sui fondi europei, già denunciate dall’ex presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, scampato a un attentato ma non alla rimozione politico-burocratic­a, hanno portato all’arresto di 94 persone e alla denuncia di 151 aziende infettate da mafia e corruzione. Corruzione dentro gli enti di assistenza che non si accorgevan­o di come tanti «agro-imprendito­ri» rivendicas­sero come loro perfino terreni appartenen­ti alla Nato. Corruzione tra veterinari che per aiutare aziende amiche le certificav­ano «indenni» a dispetto delle vacche tisiche. Corruzione fra notai disposti anche ad assegnare per usucapione poderi altrui. Fino all’impunità: 15 mila ettari gestiti da una famiglia mafiosa con l’uso, negli anni, di oltre 700 contratti stipulati con defunti. Uno dei quali nell’aldilà da una dozzina d’anni.

Tema: in un contesto tanto imputridit­o che 8 italiani su 10 sono convinti che la corruzione, come spiegava sei mesi fa Nando Pagnoncell­i, non sia calata affatto dai tempi di

Tangentopo­li (anzi, uno su tre crede sia aumentata) possiamo permetterc­i di stare per mesi senza un pilota all’anticorruz­ione? Per carità, la macchina continua tutti i giorni a lavorare, studiare, preparare rapporti. E sarebbe ingiusto sottovalut­are il ruolo del «presidente f.f.». Facente funzione. Quel che può fare fa.

Ma un organismo centrale come quello, che ha incarnato negli anni, a torto o a ragione, tante speranze da parte dei cittadini italiani esausti dalla piaga del malaffare dai tempi in cui le tangenti erano chiamate «zuccherini», avrebbe quanto mai bisogno, tanto più dopo la stagione di Raffaele Cantone che alcuni arrivarono addirittur­a ad additare per un’ascesa al Quirinale, di una guida salda. Di peso. Investita di un pubblico riconoscim­ento di leadership. Che spazzi via i cattivi pensieri (lo vogliono davvero, un responsabi­le della lotta ai corrotti?) che si stanno affacciand­o nella testa degli italiani dopo questo vuoto seguito all’uscita di Cantone il quale si era sgolato per avvertire i rischi di una vacanza di poteri. Inutilment­e.

Questo Grande Silenzio, secondo Don Luigi Ciotti e molti con lui, «è un segnale pessimo. C’è chi ha pensato che dopo lo “spazza-corrotti” tutto sarebbe stato sistemato. Non è così. È solo illusionis­mo. Fumo in faccia. La verità è che la politica ha fatto di tutto per smantellar­e penalmente la guerra alla corruzione. Trascurand­o il legame profondo che c’era e che c’è tra la corruzione e gli appalti. La corruzione e la mafia».

Il solito incendiari­o? Difficile dargli torto. La verità è che la lotta alla corruzione va a ondate. E non bastano le parole d’ordine. O capisci come cambia via via quello che papa Francesco chiama «il pane sporco» per adattarsi meglio ai tempi, o finisci per perdere di vista quanto sta accadendo. Basti pensare a qual è oggi la «contropart­ita» della corruzione. Certo, ci sono ancora le mazzette. Ne abbiamo viste girare ancora tante, nei servizi televisivi di questi giorni. Ma stando all’ultimo rapporto dell’anac dello scorso ottobre, di cui ha già scritto Giovanni Bianconi, lo scambio di fruscianti banconote è sceso al 48%. Pesano sempre di più, piuttosto, altre merci di scambio. Le regalie di un viaggio, una crociera, una gentile accompagna­trice. Le consulenze fatte avere alla società giusta. Le assunzioni di un figlio, un cugino, un amante.

Non bastano le retate. Non bastano le sfuriate. Non bastano le manette. Quella che manca è una svolta culturale. La consapevol­ezza che la guerra ai corrotti non è solo un dovere morale. E un punto di partenza indispensa­bile per l’economia, la scuola, le istituzion­i, il risanament­o ambientale...

A chi gli chiedeva come mai la magistratu­ra non sia riuscita in tanti anni a debellare il problema, Pier Camillo Davigo rispondeva giorni fa: «I giudici hanno fatto quello che in natura viene fatto dalle specie predatorie: migliorare la natura delle sue prede. Le indagini che come magistrati abbiamo fatto dal ’92 al ’96 hanno reso la corruzione più subdola, come se i ceppi virali si fossero fatti più resistenti, più difficili da individuar­e, più furba, in fin dei conti, ancora più diffusa di allora». Non avvertire questa insidia, oggi, è davvero sconfortan­te.

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