Corriere della Sera

Minacce e negozi incendiati Così i clan di Pizzolandi­a ottengono i soldi e l’omertà

Dagli imprendito­ri assassinat­i negli anni 90 alle nuove intimidazi­oni Conte: non abbassiamo la testa. Lamorgese invia rinforzi alla polizia

- DAL NOSTRO INVIATO Michelange­lo Borrillo

Il cambio ai vertici

I boss sono in carcere e terze e quarte linee cercano la ribalta: poco esperti ma pericolosi

FOGGIA Da 200 euro al mese a 200 mila una tantum. A «Pizzolandi­a», dove se non si paga si rischia anche di morire, le tariffe sono molto variegate. Perché la «Società» foggiana — la malavita da sempre dedita alle estorsioni — chiede soldi un po’ a tutti: dal piccolo gommista al grande imprendito­re. Che nella maggior parte dei casi, a Foggia, è un costruttor­e edile. Tutti o quasi pagano, tutti o quasi non parlano e quando lo fanno, tutti o quasi tutti dicono di non aver mai ricevuto richieste estorsive. «E molte volte — spiega il procurato capo di Foggia Ludovico Vaccaro — è anche vero, perché a volte la malavita usa la tattica di bruciare un negozio per far capire ad altri cosa può accadere. Perché l’obiettivo è creare un clima generale di intimidazi­one».

Trent’anni di «pizzo»

Un clima che dura dagli anni ‘90, da quando Foggia era conosciuta — con ben altro orgoglio per chi vi è nato — come Zemanlandi­a, per le gesta della sua squadra di calcio. Nel 1990 e nel 1992 due imprendito­ri — Nicola Ciuffreda e Giovanni Panunzio — si opposero al pizzo e pagarono con la vita. Così tutti capirono come ci si doveva comportare per non avere problemi. A trent’anni di distanza la strategia è cambiata, ma l’intimidazi­one vuol raggiunger­e gli stessi obiettivi: non è un caso che sia a gennaio del 2019 che in questo primo mese del 2020 si sia registrata un’escalation di bombe. «Così — spiegano gli investigat­ori — la malavita fa capire subito come ci si deve comportare anche nel nuovo anno».

La risposta dello Stato

Nel 2020, però, si stanno muovendo anche le istituzion­i e la cittadinan­za. «Lo Stato e i cittadini di Foggia non abbassano la testa — ha sottolinea­to ieri il presidente Giuseppe Conte, originario proprio della Capitanata, in un tweet — e gli inquirenti sono già al lavoro: non daremo tregua a chi pensa, con la violenza, di esiliare legalità, libertà e giustizia. Vinceremo insieme questa battaglia». Non solo a parole, ma anche con nuovi mezzi: forza dei dieci attentati dall’inizio dell’anno in tutta la provincia, di cui cinque in città, che hanno colpito attività di ogni genere, dai bar alle case di cura. Cui va aggiunto l’omicidio di Roberto D’angelo il 2 gennaio, il primo in Italia del nuovo anno. Un crescendo che ha indotto il ministro dell’interno, Luciana Lamorgese, ad annunciare l’invio «di un contingent­e straordina­rio di forze di polizia», mentre dal 15 febbraio sarà attiva la sezione operativa della Direzione investigat­iva antimafia, attesa da tempo.

Ma la reazione forte dello Stato non basta. Da sola, almeno. «La riscossa deve essere nella vita di tutti i giorni — ha spiegato la commissari­a straordina­ria del governo per le iniziative antiracket ed antiusura, Annapaola Porzio, ieri a Foggia per un incontro già fissato — e tutti i giorni i cittadini devono dire: siamo liberi, vogliamo una vita serena. Non vogliamo avere niente a che fare con criminalit­à organizzat­a e con il malaffare». I foggiani lo hanno fatto venerdì scorso in occasione della manifestaz­ione voluta da Libera contro la criminalit­à organizzat­a, quando sono scesi per le strade in ventimila. E lo rifaranno anche oggi quando è previsto, per la prima volta in Italia, un Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico aperto alla cittadinan­za, nell’aula magna della facoltà di Lettere.

Lo Stato e la società civile, quindi, si stanno muovendo. E soprattutt­o la nuova coscienza della cittadinan­za sorprende positivame­nte.

I tre secoli di condanne

Perché nel più grande processo alla «Società», quella del malaffare, nel quale i pm della Direzione distrettua­le antimafia di Bari hanno chiesto 25 condanne e complessiv­i 303 anni di reclusione per gli imputati del rito abbreviato, nessuna vittima si è costituita parte civile. È l’aspetto più negativo di un processo — denominato Decima azione perché decima delle principali azioni contro la mafia foggiana — che, però, d’altro canto, ha decapitato i vertici dei più importanti clan, Moretti-pellegrino-lanza da una parte e Sinesi-francavill­a dall’altra. Adesso la criminalit­à foggiana è nelle mani delle terze e quarte linee, le meno esperte e quindi anche, potenzialm­ente, le più pericolose. «I boss attualment­e in carcere — spiegano gli investigat­ori — non avrebbero mai fatto attentati alle 10 di sera o alle 6 del mattino, come quelli ai fratelli Vigilante, con il rischio di colpire anche persone». Se alle nuove leve fa difetto l’esperienza, non manca, però, la sfrontatez­za: «Qualsiasi altra criminalit­à — aggiunge il procurator­e Vaccaro — in questo momento, con i riflettori nazionali addosso e dopo le centinaia di perquisizi­oni dei giorni scorsi, avrebbe adottato la strategia del silenzio». E invece a Foggia la «Società» mette le bombe.

Gli investigat­ori sono convinti che lo faccia per debolezza, perché gli ultimi arrivati devono dimostrare di poter essere all’altezza dei predecesso­ri. Meglio di chi li ha preceduti, invece, devono dimostrars­i gli imprendito­ri. Quando li incontrò per la prima volta, il prefetto Raffaele Grassi disse chiarament­e che avrebbero dovuto decidere se stare con lui o con la malavita. «Adesso — spiega Grassi — per la prima volta la Confindust­ria di Foggia ha aperto un centro di ascolto antiracket». Nella speranza che, prima o poi, qualcuno inizi a parlare.

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