Ai Weiwei: la mia Turandot politica
L’artista dissidente regista per l’opera di Roma: «Cresciuto con la musica della propaganda»
ROMA Ai Weiwei mostra la foto in cui da giovane, a New York, faceva la comparsa alla Turandot «di» Franco Zeffirelli: «Ero l’assistente del boia. Accettai perché ero povero e avevo bisogno di soldi. Poi sono successe tante cose nella mia vita artistica. Questa regia a Roma la considero la chiusura del cerchio». Sarà la sua prima incursione nel mondo dell’opera. La prima e l’ultima, dice il grande artista dissidente cinese. Tempo fa gli offrirono Fidelio a Londra ma lo rifiutò. Ora farà regia, scene e costumi di Turandot, il 25 marzo all’opera di Roma.
Sarà uno degli avvenimenti musicali dell’anno. Obiettivo: evento e business. Si ritenta, nei numeri, l’operazione Traviata di Sofia Coppola: costò 1 milione e finora ne ha incassati 4, tra riprese e tournée.
I 300 costumi, disegnati uno per uno da Weiwei, saranno oggetti d’arte. Il suo rapporto con l’opera è «inesistente, sono cresciuto nella controrivoluzione cinese, c’era solo musica di propaganda, la classica era proibita. Il mio rapporto con l’opera è il silenzio. Ho visto Turandot di Zhang Yimou nella Città Proibita. A Pechino nel 1978 eravamo studenti nella stessa classe all’accademia di cinema. Cosa penso dei suoi film? Alcuni sono belli, altri no».
Come sarà il suo spettacolo? Apre il computer: «Ecco, queste sono rovine di una civiltà con moduli che salgono e scendono, è un’idea concettuale, astratta; dall’alto si vedrà un planisfero». La Cina? «Non c’è, ma il mondo è correlato ai suoi dilemmi. Mostrerò immagini da me girate a Hong Kong. È una situazione triste, i giovani cercano di difendere la loro libertà dalla Cina con enormi sacrifici».
Sarà uno spettacolo politicizzato? «C’è una dimensione politica in ogni mio progetto, ma la gente va a teatro per divertirsi e sarebbe improprio accentuarla. Turandot era la visione di un occidentale dell’oriente a inizio ’900. Il rapporto è totalmente cambiato. Non avendo riferimenti mi sento libero. Ma nel rispetto della musica di Puccini, che trovo iper-romantica. La fiaba è vecchia, io sono un artista contemporaneo. L’idea è come ristudiare questo classico, con una sensibilità del nostro tempo. È una combinazione di antico e, nell’ambientazione, di moderno». L’ambiente dell’opera può essere terribile: ne è spaventato? «No, le sfide mi esaltano, ne ho affrontate tante...».
Turandot è un bizzarro sogno lunare ma è anche una donna vera. «Una donna vera animata da propositi di vendetta per la violenza subìta dalla sua antenata. Cercherò di far rivivere le sue due anime, una immaginaria, rappresentata dall’establishment che lei incarna e dalla classe che detiene il potere; l’altra è ancorata alle sue radici. Calaf sarà un rifugiato, come suo padre, arriva dopo un viaggio da un altro paese, cerca un modo per sopravvivere».
I flussi migratori sono al centro del suo film Human Flow. «Dopo, ho girato due documentari, il 24 al Sundance Festival si vedrà il secondo, Vivos, su una brutalità avvenuta in Messico; quarantatré studenti scomparsi nel nulla dopo essere stati attaccati da forze di polizia e uomini mascherati. La criminalità lì è una combinazione di narcotrafficanti, politici e uomini d’ordine».