Corriere della Sera

IL RITORNO (POLITICO) AL CENTRO

Sentenza La decisione della Consulta prelude a una nuova legge con la proporzion­ale pura. Ora bisogna cavarsela con ciò che c’è, con ciò che passa il convento

- Di Angelo Panebianco

Chi ha voglia di non fermarsi alla superficie delle cose, di non accontenta­rsi dei ragionamen­ti sul cui prodest, su quelli che, qui e ora, hanno vinto e su quelli che hanno perduto, può rendersi conto del fatto che la sentenza della Corte costituzio­nale che ha dichiarato inammissib­ile il referendum leghista sulla legge elettorale chiude definitiva­mente un’epoca. D’ora in poi non sarà più possibile, per chissà quante generazion­i, immaginare cambiament­i sostanzial­i della «costituzio­ne materiale» della Repubblica nata alla fine della Seconda guerra mondiale.

C’è un nesso strettissi­mo fra la sentenza e il risultato del referendum costituzio­nale del 2016. Allora, una maggioranz­a schiaccian­te decise che la democrazia acefala (con governi deboli, ricattabil­i e per lo più di brevissima durata), ossia il regime assemblear­e — che è una variante del parlamenta­rismo — scelto dai costituent­i dopo la Liberazion­e, era esattament­e ciò che gli italiani volevano conservare. La sentenza della Corte prelude al ritorno della proporzion­ale pura. In effetti, una democrazia assemblear­e, una democrazia acefala, «chiama» la proporzion­ale. Nel senso che la legge elettorale proporzion­ale è la più adatta per un simile assetto costituzio­nale.

Ripeto ciò che sia io che altri abbiamo detto tante volte ma che, stando a quanto si continua a leggere, pare sia cosa assai complicata.

I l movimento che volle la legge elettorale maggiorita­ria e che si formò fra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta non pensava affatto che bastasse cambiare la legge elettorale (dal proporzion­ale al maggiorita­rio) per avere una democrazia rappresent­ativa ben funzionant­e. Pensava (sperava) che il cambiament­o della legge elettorale obbligasse la classe politica a riformare la Costituzio­ne del 1948. Occorreva — pensavano i protagonis­ti di quel movimento — una «democrazia maggiorita­ria». Ma una tale democrazia non lo è solo in virtù della presenza di una legge elettorale maggiorita­ria. Necessita anche di un assetto costituzio­nale coerente, necessita soprattutt­o di governi istituzion­almente forti, il contrario della democrazia acefala.

Le cose andarono diversamen­te. I tentativi di cambiare la Costituzio­ne fallirono uno dopo l’altro. E il riflusso portò col tempo a una serie di riforme del sistema elettorale che ne indeboliro­no progressiv­amente la componente maggiorita­ria. Chi si limita a dire che qui da noi l’esperiment­o maggiorita­rio «non ha funzionato» non coglie il punto. In primo luogo, sottovalut­a il fatto che proprio grazie alla legge maggiorita­ria l’italia ha conosciuto, per un breve periodo, l’alternanza al governo fra coalizioni contrappos­te. Il contrario di quella logica trasformis­ta che ha consentito il passaggio dal Conte 1 al Conte 2 e che, certamente, sarà l’unica vera «regola del gioco» nella formazione dei governi per i decenni a venire. Ciò che invece «non ha funzionato» è che l’esperiment­o maggiorita­rio riguardò solo il metodo di votazione, non venne accompagna­to da una coerente riforma della Costituzio­ne.

Continuo a pensare che le (compiute) democrazie maggiorita­rie, essendo democrazie governanti (con governi Chance Ma le democrazie maggiorita­rie hanno più possibilit­à di stabilità e di buon governo

forti), abbiano più chance di stabilità e di buon governo rispetto alle democrazie assemblear­i e acefale. Certo, di tanto in tanto può benissimo vincere un Trump. Ma nel lungo periodo, la democrazia maggiorita­ria favorisce moderazion­e e convergenz­a al centro. Per inciso, se i democratic­i americani fossero capaci di scegliere un credibile candidato centrista potrebbero battere — forse senza troppe difficoltà — il presidente uscente.

Ma poiché il tema della democrazia maggiorita­ria non riguarda più l’italia, tanto vale smettere di occuparsen­e. Adesso bisogna cercare di cavarsela con ciò che c’è, con ciò che passa il convento. Ci piaccia o non ci piaccia. E allora bisogna dire che una democrazia acefala è una democrazia a rischio e solo la nascita di una formazione politica «centrista», elettoralm­ente consistent­e, può stabilizza­rla. Ma — si domanderà qualcuno— perché a rischio? Non è forse la stessa democrazia che dura dal 1948? Sì, ma le condizioni sono cambiate. Non ci sono più

La lezione del passato La storia italiana del XX secolo ci ricorda che chi è inamovibil­e finisce per mal governare

i grandi partiti di un tempo, con un fortissimo radicament­o sociale, a compensare le debolezze del nostro regime costituzio­nale. Soprattutt­o, non ci sono più i potenti sostegni internazio­nali di cui la democrazia italiana ha per tanto tempo goduto. Siamo entrati in acque turbolenti­ssime (si pensi, ad esempio, ai pericoli connessi alla situazione libica) e la democrazia acefala è una fragile barchetta, non un bastimento solido in grado di fronteggia­re le tempeste. Per fortuna — checché ne dicano i profession­isti dell’allarme democratic­o — non è ancora apparso nessuno all’orizzonte che, anziché limitarsi a fare battute più o meno autolesion­iste sui «pieni poteri», riesca a prendersel­i senza nemmeno fiatare.

Il tutto per dire che se la democrazia acefala, con tanto di proporzion­ale pura, è ciò che passa il convento, allora le serve un partito di centro con forte seguito elettorale. Non è garantito che possa emergere e affermarsi. Inoltre, bisogna ricordare che si tratterebb­e solo di fare di necessità virtù. Perché una formazione di centro ha, necessaria­mente, le sue magagne. Essa è, per definizion­e, il prezzemolo, indispensa­bile in qualunque combinazio­ne di governo. Un partito centrista di un qualche peso cambierebb­e alleanze di governo (magari anche più di una volta) nel corso di una stessa legislatur­a sulla base delle sue momentanee convenienz­e. Darebbe alla democrazia acefala il baricentro che le serve per durare ma al tempo stesso sarebbe il ricettacol­o e il motore di ogni trasformis­mo parlamenta­re. Un partito di centro sarebbe «condannato» (sic) ad essere sempre al governo insieme a questo o a quello. La storia italiana del XX secolo ci ricorda che chi è inamovibil­e, chi è sempre al governo, finisce, nel lungo periodo, per mal governare.

La sentenza della Corte è l’ultimo atto. Il menu prevede una sola minestra.

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