Corriere della Sera

Di Massimo Gramellini Diceva mio padre

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Ryan Pourjam è un ragazzino canadese che ha parlato di suo padre come ogni padre, e in genere ogni adulto, vorrebbe che un ragazzino parlasse di lui. Il padre di Ryan si chiamava Mansour ed era tra i 176 passeggeri dell’aereo che due missili degli ayatollah hanno spedito per sbaglio all’altro mondo. Possiamo solo immaginare i sentimenti di un adolescent­e verso chi ti ha scippato il padre in modo tanto infame. Quando Ryan ha iniziato a parlare all’università di Ottawa, qualunque parola orribile fosse uscita dalle sue labbra sarebbe apparsa giustifica­ta. Invece ne ha pronunciat­a una sola: forte. Questo era mio padre, ha detto. Forte e positivo, nonostante nella vita avesse attraversa­to muri e tragedie: se fosse morto un altro al suo posto, adesso lui non parlerebbe delle cose negative e quindi non lo farò nemmeno io. Mi sembra di stare dentro un brutto sogno, ha aggiunto Ryan, inghiotten­do un sospiro. Ma so, ha concluso, che se adesso mi svegliassi da quel sogno, papà mi direbbe «Andrà tutto bene» e così sarà.

Che discorso da brividi. Il dolore è sempre un momento di svolta: puoi rimuoverlo, o provare a nasconderl­o sotto l’odio per chi te lo ha procurato. Ma puoi anche attraversa­rlo, ed è stata la scelta di Ryan, suggeritag­li dal padre con il suo esempio. I ragazzini ci ascoltano, persino quando a noi sembra che non lo facciano. Ed è ciò che sentono, non solo con le orecchie, l’unica eredità che riusciamo a trasmetter­e.

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