A Berlino non si parlerà della missione in Libia
L’obiettivo del summit sarà di minima: tenere la tregua
L’unica cosa di cui non si parlerà alla Conferenza sulla Libia, che si apre domani pomeriggio a Berlino, è l’organizzazione di una missione internazionale per garantire il cessate il fuoco e l’inizio di un processo politico. «Troppo presto, non siamo ancora a una fase così avanzata», avvertono diverse fonti europee alla vigilia del vertice voluto e preparato per mesi dalla diplomazia tedesca, che ha investito molto sulla sua riuscita. L’iniziativa di Berlino si vuole in appoggio agli sforzi di mediazione dell’inviato speciale dell’onu per la Libia, Ghassan Salamé.
L’obiettivo principale dell’appuntamento berlinese è infatti di sancire solennemente l’impegno a consolidare la fragile tregua raggiunta sul terreno tra il governo di Fayez al-sarraj e l’esercito nazionale libico di Khalifa Haftar. È un impegno che coinvolge non solo i duellanti, ma anche tutti gli altri attori regionali e internazionali in qualche modo coinvolti nella vicenda libica e invitati da Angela Merkel al Kanzleramt insieme al Segretario Generale dell’onu, Antonio Guterres: i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito e Francia) e poi Italia, Turchia, Egitto, Emirati Arabi, Algeria e Repubblica del Congo.
È da questi protagonisti esterni che dovrebbe venire un movimento decisivo, mirato a chiudere definitivadias mente i rubinetti che alimentano la guerra civile nel Paese nord-africano, con la cessazione delle coperture politiche e soprattutto delle forniture di armi ai rispettivi clienti. «L’ambizione della Conferenza — dicono le fonti — è lanciare un processo politico sostenibile di cui i libici e solo i libici siano i veri titolari». Nell’idea del governo tedesco occorre sfruttare il momento paradossalmente propizio, nel quale tutti si dicono a favore di un dialogo strutturato sulla Libia.
Detto altrimenti il summit sulla Sprea non è un punto di arrivo, ma vorrebbe segnare il primo passo di un percorso ancora lungo e denso di insidie. Che sono tante, a partire dalla lista degli invitati. Ieri per esempio è esploso il caso Grecia, esclusa dalla conferenza nonostante sia uno dei Paesi più interessati dai flussi di migranti in fuga o in transito dalla Libia.
Secondo una ricostruzione (non confermata) della Bild, sarebbe stato il presidente turco Erdogan a porre il veto a una partecipazione greca con la cancelliera Merkel. A soffiare sul fuoco è stato anche il generale Haftar, che ieri ad Atene ha incontrato il ministro degli Esteri Nikos Dene poi ha fatto twittare sull’account dell’esercito Nazionale Libico che «la conferenza di Berlino non sarebbe corretta né valida senza la partecipazione di Grecia e Arabia Saudita», quest’ultimo uno dei suoi principali sponsor. Anche Tunisia e Qatar hanno protestato per non essere stati invitati.
Merkel ha cercato di disinnescare la miccia greca, con una telefonata al premier Kyriakos Mitsotakis, il quale oltre a lamentarsi del mancato invito, si è detto molto preoccupato «dell’azione destabilizzatrice della Turchia». Mitsotakis ha chiesto alla cancelliera che alla conferenza venga annullato il recente accordo tra la Turchia e il governo di Tripoli, suo protetto, che assicura ad Ankara diritti di estrazione in un’area del Mediterraneo orientale strategica per diversi Paesi, fra cui Grecia e Cipro.
Anche se non se ne parlerà a Berlino, la prospettiva di una missione di pace resta sullo sfondo. La evoca in un’intervista a Der Spiegel l’alto Rappresentante della Ue per la Politica Estera e di Sicurezza, Josep Borrell, secondo il quale «l’unione europea deve essere pronta a dare una mano nell’implementazione e nel controllo di un cessate il fuoco duraturo, eventualmente anche con soldati».
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