Un cruciale neologismo
Nel comunicato stampa diffuso due giorni fa la Corte costituzionale ha scritto che il quesito referendario sulla legge elettorale è «inammissibile per l’assorbente ragione dell’eccessiva manipolatività» di una sua parte. Manipolatività. Un neologismo relativo, visto che la parola circola almeno dai primi anni Duemila; di sicuro un tecnicismo settoriale. Intanto, perché la lingua giuridica ha sempre fatto largo uso di questo tipo di astratti, che sembrano garantire un livello formale e un raggio d’azione generale: da legittimità a irreclamabilità, da punibilità a imprescrittibilità. Poi, perché tutta la (breve) storia della parola si è svolta in questo ambito. E lo stesso vale per l’aggettivo da cui è ricavata: manipolativo, che si trova già dalla fine del secolo scorso in contesti analoghi (come appunto: «L’uso manipolativo del referendum»). Fin dall’ottocento, il verbo manipolare è usato — oltre che nel senso di impastare, lavorare un materiale con le mani — anche con il significato di alterare, contraffare, falsificare; alla base c’è l’idea di maneggiare qualcosa per ottenere un certo intento. Manipolare deriva a sua volta dal manipolo, originariamente inteso come una manciata di qualcosa (di lì anche il significato militare, che ancora risuonava nella mussoliniana minaccia di fare del Parlamento «un bivacco di manipoli»). La radice etimologica di queste parole è, insomma, la mano che modifica le cose. Ma se manina c’è stata, è stata un po’ pesante.