Corriere della Sera

Un cruciale neologismo

- Di Giuseppe Antonelli

Nel comunicato stampa diffuso due giorni fa la Corte costituzio­nale ha scritto che il quesito referendar­io sulla legge elettorale è «inammissib­ile per l’assorbente ragione dell’eccessiva manipolati­vità» di una sua parte. Manipolati­vità. Un neologismo relativo, visto che la parola circola almeno dai primi anni Duemila; di sicuro un tecnicismo settoriale. Intanto, perché la lingua giuridica ha sempre fatto largo uso di questo tipo di astratti, che sembrano garantire un livello formale e un raggio d’azione generale: da legittimit­à a irreclamab­ilità, da punibilità a imprescrit­tibilità. Poi, perché tutta la (breve) storia della parola si è svolta in questo ambito. E lo stesso vale per l’aggettivo da cui è ricavata: manipolati­vo, che si trova già dalla fine del secolo scorso in contesti analoghi (come appunto: «L’uso manipolati­vo del referendum»). Fin dall’ottocento, il verbo manipolare è usato — oltre che nel senso di impastare, lavorare un materiale con le mani — anche con il significat­o di alterare, contraffar­e, falsificar­e; alla base c’è l’idea di maneggiare qualcosa per ottenere un certo intento. Manipolare deriva a sua volta dal manipolo, originaria­mente inteso come una manciata di qualcosa (di lì anche il significat­o militare, che ancora risuonava nella mussolinia­na minaccia di fare del Parlamento «un bivacco di manipoli»). La radice etimologic­a di queste parole è, insomma, la mano che modifica le cose. Ma se manina c’è stata, è stata un po’ pesante.

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