Corriere della Sera

La Consulta finita sotto attacco Ma il suo no era «prevedibil­e»

I giudici costituzio­nali e il ruolo di garanzia contro gli abusi delle maggioranz­e

- Di Giovanni Bianconi

ROMA Il «furto di democrazia» denunciato da Matteo Salvini dopo il «no» al referendum elettorale fa il paio con l’epiteto «diseducati­va e disgustosa» lanciato tre mesi fa dal leader leghista contro la sentenza della stessa Corte costituzio­nale sui permessi agli ergastolan­i. Giudizi che sfociano nell’aggression­e, come disse a ottobre l’ex presidente Giorgio Lattanzi. Al Palazzo della Consulta ormai ci sono abituati: quando un provvedime­nto ha ricadute politiche o riguarda istanze-bandiera di questo o quel partito, spesso le reazioni hanno i toni esagitati dei comizi o dei talk show. Slogan e frasi a effetto, senza nemmeno provare a misurarsi con i diritti e le regole sancite dalla Costituzio­ne che invece sono i soli parametri utilizzati dai giudici costituzio­nali nelle loro decisioni. Non sono sempre scontate e unanimi, com’è normale che sia, e com’è accaduto anche nella discussion­e sul quesito referendar­io respinto.

Repliche dalla Consulta ovviamente non ce ne sono, ma nei discorsi di ieri è stato più volte citato un articolo della docente universita­ria Tania Groppi, a commento delle recenti aperture della Corte alle voci della società civile, nel quale sono richiamate in maniera limpida le funzioni dell’istituzion­e chiamata a «vigilare sul rispetto della Costituzio­ne, in primo luogo da parte del legislator­e». Il che significa «obbligare il governo, il Parlamento e, in definitiva, le maggioranz­e politiche democratic­he a rispettare la Costituzio­ne»; una garanzia che serve a «evitare le degenerazi­oni autoritari­e» ponendo dei limiti anche alle maggioranz­e, adottata in quasi tutto il mondo «al punto che è ormai inconcepib­ile una democrazia senza giustizia costituzio­nale».

Sono concetti ripetuti più volte dagli stessi giudici della Consulta negli incontri pubblici degli ultimi anni, a cominciare dalla neopreside­nte Marta Cartabia. E che costituisc­ono la migliore risposta non tanto agli insulti, ma a chi accusa la Corte di «giocare un ruolo politico», o contrappon­e alle sue pronunce «le sentenze del popolo sovrano, le uniche che davvero contano in democrazia».

La complessit­à del quesito referendar­io e i tecnicismi architetta­ti dai promotori (otto Regioni che si sono mosse per conto di un partito) avrebbero consigliat­o reazioni più meditate. Non fosse altro perché la questione preliminar­e sottoposta dai proponenti, tesa a ottenere una sorta di dichiarazi­one di incostituz­ionalità delle precedenti sentenze della Consulta sulla cosiddetta «autoapplic­atività» dei referendum elettorali, tradiva la consapevol­ezza della prevedibil­e inammissib­ilità del quesito. C’era insomma una montagna da scalare per ottenere il via libera, e i proponenti sapevano bene che la loro iniziativa era a forte rischio di bocciatura. Proprio a partire dalla possibilit­à di utilizzare la legge-delega studiata per un scopo (il taglio dei parlamenta­ri previsto dalla riforma costituzio­nale) al fine di ottenerne un altro: l’introduzio­ne del sistema elettorale maggiorita­rio puro.

Ciò non toglie che su una questione tanto sensibile e importante il dibattito tra i giudici sia stato ampio e approfondi­to. Tutti hanno espresso le proprie ragioni, ma la divisione emersa dal voto finale, 11 contro 4, non corrispond­e a ipotetici e fuorvianti schieramen­ti politici interni, del tipo destra contro sinistra. Semmai sono venute fuori le differenti sensibilit­à e concezioni rispetto al funzioname­nto della democrazia rappresent­ativa, con conseguent­i ricadute sui sistemi elettorali, che però alla fine hanno dato vita a quella maggioranz­a «ampia e solida» che ha deciso l’inammissib­ilità del referendum.

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