Corriere della Sera

CHIEDERE ALLA MEDICINA PROBABILIT­À, NON CERTEZZE

- Di Gianluca Vago

C aro direttore, «I don’t know», non lo so. Queste tre parole hanno, nel rapporto tra il medico e le persone che a lui si affidano, un potere enorme. Sono , in molti casi, le più difficili da pronunciar­e, e allo stesso tempo, le più vere e oneste. Difficili proprio perché vere. Rimandano a un aspetto fondamenta­le della conoscenza in medicina, che è il più complesso da comprender­e ed accettare, da parte di chi è malato. Ma è importante insistere, su questo punto. La medicina è, in larga misura, una scienza probabilis­tica. I medici fanno diagnosi, somministr­ano cure, eseguono interventi chirurgici, stilano prognosi, sulla base di stime di probabilit­à. I sistemi biologici, e il corpo umano tra questi, sono sistemi enormement­e complessi, e le alterazion­i che portano all’insorgere della maggior parte della malattie, derivano da un insieme di fattori la cui comprensio­ne e misurazion­e è almeno incompleta, se non impossibil­e con gli strumenti di cui disponiamo. Matt Morgan, un intensivis­ta britannico, lo ha ricordato in un suo commento di poche settimane fa, sul British Medical Journal, una delle migliori riviste mediche. Lo ha fatto con un semplice esempio che nulla ha a che vedere con la medicina. Ognuno di noi consulta le previsioni del tempo, e sa che quella che viene espressa è la probabilit­à di un fenomeno atmosferic­o; ad esempio, che la probabilit­à di pioggia, in una determinat­a ora di un determinat­o giorno, è del 90%. Se in quell’ora di quel giorno dovesse splendere il sole, non potremmo dire che c’è stato un errore, ma «solamente» che la verità stava nel 10% rimanente. Alla domanda diretta, a quell’ora di quel giorno pioverà?, l’unica risposta corretta avrebbe dovuto essere «è molto probabile che», ma «non lo so» — e non lo posso sapere — con «certezza». E tuttavia, l’informazio­ne sulla probabilit­à di pioggia (al 90%), ci è utile per decidere come vestirsi, se uscire con un ombrello, con che mezzo muoversi.

In medicina, molte informazio­ni, in particolar­e quelle prognostic­he, e ovviamente in misura diversa, sono dello stesso tipo, soggette cioè a una previsione di natura probabilis­tica. Sono informazio­ni importanti, perché fornire

delle probabilit­à significa sapere molto più di prima, e avere una base razionale per prendere decisioni. Nel suo editoriale di commento, Kamran Abbasi, executive editor di Bmj, cita alcuni esempi, riferiti a lavori pubblicati nello stesso numero della rivista: il rapporto tra terapia ormonale sostitutiv­a nelle donne in menopausa e rischio di tumore mammario, gli effetti delle modifiche di peso corporeo nell’adulto sulla mortalità, se prescriver­e o meno statine a pazienti con basso rischio cardiovasc­olare, o come comportars­i con chi decide di utilizzare test genetici commercial­i. Per concludere, ironicamen­te, che «non lo so» è anche la risposta più probabile a chi chiede di spiegare il sistema sanitario statuniten­se.

Ognuno di questi esempi coinvolge milioni di persone: nel solo Regno Unito, circa un milione di donne assume una terapia ormonale sostitutiv­a. Le statine sono oggi la classe di farmaci più usata in Gran Bretagna e una delle più utilizzate nel mondo, e il solo cambiament­o nelle indicazion­i di utilizzo ha quasi decuplicat­o, dal 1987 al 2016, la percentual­e

di soggetti potenzialm­ente trattabili con statine (dall’8 al 61%); ma ciò che più importa, è che trattando pazienti a basso rischio aumenta il numero di pazienti che è necessario trattare per evitare un evento cardiovasc­olare grave, da 40 nel 1987 a 400 nel 2016. E ciò che ancora più importa, nella relazione medico-paziente, è che il medico non sa se quel paziente con cui sta parlando è quell’uno tra 400 che si salverà grazie al trattament­o, o uno degli altri 399 che assumerann­o statine senza trarne alcun vantaggio, o addirittur­a subendone gli effetti collateral­i. Non lo sa, non per sua colpa o ignoranza, ma perché nessuno lo può sapere, non allo stato attuale delle conoscenze. Può solo, onestament­e, dare queste informazio­ni, e condivider­e la decisione se iniziare o meno la terapia con il paziente stesso.

Molti degli sforzi che la ricerca medica sta compiendo in questi ultimi anni rimandano proprio alla necessità di «personaliz­zare» le informazio­ni diagnostic­he, prognostic­he e terapeutic­he; attraverso la produzione, la raccolta e l’elaborazio­ne di un’enorme quantità di informazio­ni, con l’obiettivo di identifica­re le caratteris­tiche biologiche di ciascuno di noi, individual­mente. Del singolo tumore, ad esempio, attraverso lo studio delle diverse mutazioni, perché sia possibile prevedere, in quella persona e solo in quella, come risponderà a una determinat­a terapia, e solo a quella. Quando sarà possibile, e in che misura, ottenere questo risultato, merita la stessa risposta, «non lo sappiamo».

Oggi, è fondamenta­le comprender­e il senso vero, di profonda onestà intellettu­ale, che si nasconde nell’ammissione che la medicina può dare molto, a condizione di chiederle probabilit­à, e non certezze. È difficile dirlo, è ancora più difficile sentirselo dire, perché una persona malata, e chi gli è vicino, si aspettano delle risposte certe, solide, si aspettano che la medicina moderna possa tutto. Forse occorre imparare il modo con cui dirlo, o forse non sempre è la risposta migliore. Ma la più onesta, con se stessi e con chi al medico affida la sua salute e la sua vita, questo probabilme­nte sì.

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