Le pagelle di Sanremo
Pelù nonno rock, la famiglia è tra i temi dominanti Si distinguono i brani di Rancore, Diodato e Pinguini
Il Festival sta tutto nel telefonino di Amadeus. La selezione delle 24 canzoni è passata per lo smartphone del direttore artistico che le ha ascoltate «decine di volte tutte, in auto, a casa, ovunque». Due playlist: una con i circa 210 pezzi ricevuti e un’altra in cui metteva e toglieva le prescelte.
Il suono di Sanremo 70 fa un passo di lato. Baglioni aveva cercato una sintonia con i nuovi suoni, l’indie e l’urban, il mondo delle piattaforme streaming; Amadeus ha ricercato la melodia pop (ma con pezzi uptempo più che ballad) e una contemporaneità rivolta al pubblico più adulto delle radio. Rivendica la scelta: «Quello che è pop per me è vincente. Un brano è popolare se lo ascoltiamo io, mia madre e mia figlia».
Le canzoni, qui valutate a un primo ascolto, avranno tempo di crescere. I testi zoppicano da subito. Sono socialmente anestetizzati. Il tema green, nonostante Greta, non c’è. Spariti anche porti chiusi e migranti. I residui di impegno si trovano nelle rime dei rapper. Il mascherato Junior Cally scaglia dei chitarroni contro i populisti, Salvini («odio il razzista/ che pensa al Paese/ ma è meglio il mojito») e Renzi («il liberista di centro sinistra/ che perde partite/ e rifonda il partito»). Rancore rimpiange un paradiso terrestre corrotto dai ta-ta-ta delle guerre. Con la lettera di Levante sulla diversità si chiudono le riflessioni sull’oggi.
Il resto è sentimento, autoanalisi e famiglia. Il cuore di Achille Lauro è intrappolato da una strega bugiarda: torna sul luogo del delitto di «Rolls Royce», chitarre per ballare. Merita punti Diodato che prova a fuggire dall’incomunicabilità di una storia: è la canzone più delicata e fragile, la sua voce la più pulita. Bugo e Morgan confrontano ambizioni e sincerità su un pezzo che guarda a Londra e agli anni 80. C’è qualcosa di Salmo (non solo la produzione di Stabber) in Anastasio che rappa con energia teatrale su un riff blues. Elodie si fa accompagnare nel territorio urban da due guide che non ne sbagliano una: Mahmood e Dario «Dardust» Faini (quelli di «Soldi», per dire).
Sono all’insegna del divertimento e della leggerezza il fischio di Gabbani e l’inno alla semplicità funk con citazioni beatlesiane dei Pinguini Tattici Nucleari, band in quota indiesorpresa come fu Lo Stato Sociale. L’ironia del testo della regina del twerk Elettra Lamborghini le fa quasi perdonare la scelta del reggaeton.
Irene Grandi va in analisi e il dottor Vasco che firma il brano le rimette in bolla vita e carriera. Marco Masini si mette al piano e allo specchio ma l’immagine è sfuocata. La ricerca della gioia delle Vibrazioni è fra rock e melodia. Gualazzi porta il suo pianoforte a Cuba ma sembra smarrito quando esce dal suo. Scarseggiano le emozioni in famiglia: Paolo Jannacci cerca eleganza ma non trova originalità nella dedica alla figlia; Pelù è un nonno rock che immagina il nipotino alle prese con il mondo; di mamma ce n’è una sola, ma non si distinguere dalle altre quella di Giordana Angi, ex di Amici. Dalla stessa scuola arrivano gli amori quasi spenti di Riki e il tenore Alberto Urso con una romanza che punta agli affezionati al belcanto. La voce di Tosca non si discute, la canzone sì. Rita Pavone si scatena, Zarrillo prova a ballare (e tanto altro): tanto rumore per nulla. I baci di Nigiotti sono più banali dei bigliettini dei cioccolatini. Si finirà a notte fonda con 24 brani. Non ce n’era bisogno.