Corriere della Sera

Nel Ghetto

«Un cielo stellato...» e la storia di un’anna Frank italiana: ricerca sugli ebrei deportati a Roma

- Valerio Cappelli

«L’ idea è di Israel Cesare Moscati, che è venuto a mancare da poco, e ha scritto la sceneggiat­ura con me e Marco Beretta. In uno dei suoi documentar­i, Alla ricerca delle radici del male, fece incontrare ad Auschwitz figli e nipoti di vittime e aguzzini dei lager. Si perdonavan­o, per colpe non loro. Così ho pensato di fare un film con cristiani ed ebrei, giovani e meno giovani, di ceti abbienti e no, col proposito di abbattere ulteriorme­nte muri e pregiudizi», racconta Giulio Base. È il regista di Un cielo stellato sopra il ghetto di Roma, come un collage di storie realmente avvenute.

Si parte da una ragazza, Sofia (l’attrice Bianca Panconi) che al Ghetto di Roma trova la foto di una bambina, «una specie di Anna Frank di cui non sa nulla se non ciò che legge in una lettera rinvenuta per caso. Un gruppo di ragazzi cerca di risalire alla sua identità. Si scoprirà che la bambina era stata adottata nel dopoguerra,

● Giulio Base (Torino, 1964) è laureato in Storia del cinema e in Teologia. Allievo di Vittorio Gassman alla Bottega teatrale di Firenze, affianca alla carriera di attore quella di sceneggiat­ore e regista. Tra gli altri ha diretto «Poliziotti» e «Cartoline da Roma» ed era la nonna di Sofia».

Girato tra la Sinagoga, l’isola Tiberina, gli archivi e le case ebraiche e il Convento di Sant’alessio all’aventino, il film va avanti e indietro nel tempo. Giulio Base ha girato in maniera «filologica», al primo albeggiare, il rastrellam­ento del Ghetto, il 16 ottobre 1943, la retata di 1023 ebrei deportati ad Auschwitz, soltanto sedici di loro sopravviss­ero.

«Ho letto tutto quello che c’era da leggere, da Giacomo De Benedetti ad Anna Foa. Ma la forza del nostro racconto sta nei ricordi di quella bambina. L’unica a salvarsi trovando rifugio in convento da una suora, sarà lei a scrivere quella lettera, “una sorta di messaggio in bottiglia”», dice il regista. Una storia che ritroverà qualcosa che assomiglia alla felicità.

La suora (Lucia Zotti) era una ragazza «qualunque che nella Roma degli anni Quaranta si innamora, resta incinta, perde il bambino; vive la bambina ebrea da lei salvata come se fosse la figlia che aveva perduto prima di entrare in convento».

A un certo punto si vedrà il vecchio congegno del teatro nel teatro, una pièce, quello che i ragazzi stanno vivendo lo mettono in scena per risvegliar­e l’attenzione dopo che le ricerche sono a un punto morto, una specie di recita di fine anno, un saggio. Lentamente, la nonna esce dalla nebulosità 1943

Una scena del film ambientata tra il Ghetto, la Sinagoga e l’isola Tiberina dei ricordi graffiati, sfocati; esce dai traumi rimossi e rimette in fila i pezzi del suo passato, rivede i suoi genitori portati via dai nazisti, caricati sui camion; la suora che l’ha accolta...

«Bisogna continuare a raccontarl­e queste storie, a frequentar­si fra le diverse religioni, anche l’indifferen­za può essere peggiore dell’odio. Della Shoah non si parlerà mai abbastanza», afferma Giulio Base, che è laureato in Teologia.

«In un momento di odio sociale — dice ancora il regista —, vorrei aiutare ad abbattere i pregiudizi e lanciare un messaggio di fratellanz­a, la comunione piuttosto che la divisione. Perché le cose che ci uniscono, cattolici ed ebrei, sono più di quelle che ci dividono. Quando diedi da leggere il copione al rabbino Riccardo Di Segni, mi disse: non discuto di Teologia con papa Francesco, perché ognuno si tiene le sue verità, però fra noi c’è l’amore, la comprensio­ne, l’ascolto».

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Regista

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