Pechino, Taiwan (e Hong Kong) Se la separazione è nei valori
Dietro il trionfale successo della signora Tsai Ing-wen e del partito Democratico progressista nelle elezioni presidenziali di Taiwan vi è un dramma in tre atti che merita di essere raccontato. Nel primo atto l’isola di Taiwan si chiama Formosa (il nome che le dettero i portoghesi quando cercavano spezie nei mari della Cina) ed è il solo territorio di una certa importanza sfuggito all’armata popolare durante la guerra fra i nazionalisti di Chiang Kai-shek e i comunisti di Mao Zedong. Dopo la vittoria di Mao, Formosa diventa sede del Kuomintang (il partito di Chiang) ed è una sorta di Cina in esilio, un piccolo Stato, oggi abitato da 23 milioni di persone, che può tuttavia contare sulla protezione militare degli Stati Uniti e ha persino un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza. La Cina di Mao, naturalmente, non riconosce la Cina di Chiang, ma Washington, soprattutto dopo l’intervento dei comunisti cinesi nella guerra di Corea, continua a sperare che il loro Stato fallisca e che Taiwan possa, un giorno, ristabilire i suoi legami con il continente. Nel secondo atto, durante gli anni Sessanta, molti Paesi occidentali, fra cui la Francia del generale De Gaulle, cominciano a chiedersi se valga ancora la pena di attendere un evento improbabile. La Cina comunista ha consolidato le sue istituzioni, controlla il suo enorme territorio ed esercita una crescente influenza sull’intero continente asiatico. Ignorarne l’esistenza è, oltre che inutile, pericoloso. Negli anni in cui il suo ministro degli Esteri è Pietro Nenni, anche l’italia
La scelta dell’isola Svizzera asiatica o ritorno alla Madrepatria? Tutto dipende dall’interpretazione di autonomia e diritti
apre un negoziato con Pechino che si concluderà felicemente il 6 novembre 1970. Di lì a poco persino Washington, grazie a Kissinger, giungerà alle stesse conclusioni. Beninteso Taiwan dovrà cedere a Pechino il seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’onu, ma potrà sempre contare sulla protezione degli Stati Uniti, a cui non spiace avere un fedele alleato in una delle zone più cruciali del Pacifico. All’inizio del nuovo secolo, quindi, le Cine continuano a essere due: quella comunista dei successori di Mao e quella nazionalista dei successori di Chiang. Entrambe si considerano legittime rappresentanti dell’intera Cina. Nel terzo atto assistiamo a una graduale evoluzione del piccolo Stato di Taiwan dove si fa strada la convinzione che sarebbe meglio rinunciare alle ambizioni restauratrici per diventare una Svizzera asiatica. A Pechino, invece, prevale la convinzione che Taiwan debba tornare alla Cina, magari con la formula («un Paese due sistemi») che è stata adottata per Hong Kong quando Londra nel 1997 dovette rinunciare alla sua colonia, ma ottenne che godesse di una larga autonomia. Tutto sarebbe più semplice, naturalmente, se la Cina, negli scorsi mesi non avesse dimostrato, nei suoi rapporti con Hong Kong, che il concetto di autonomia a Pechino è alquanto diverso da quello delle democrazie occidentali.
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