Corriere della Sera

Bellocchio: io e Fellini uniti dalla psicoanali­si, ma lui non cambiò mai

Il regista piacentino: «Si distinguev­a da tutti Tra politica, religione, corruzione, donne e sesso la sua opera è una precisa rappresent­azione dell’italia I giovani dovrebbero conoscerlo, si divertireb­bero»

- di Maurizio Porro

L’80enne Marco Bellocchio, fresco del trionfo del suo Il traditore, va a stringere idealmente la mano a Fellini che il 20 gennaio compie 100 anni — il cinema è un presente storico — e che ha imparato ad amare negli anni. Prima a Rimini poi a Bologna dove la Cineteca ha restaurato alcuni suoi capolavori, per far festa all’arte del cinema e alla grandezza profetica del maestro di 8 e mezzo. Bellocchio e Fellini hanno abitato pianeti diversi, ma hanno avuto qualche lascito italiano in comune: i turbamenti dell’educazione cattolica e l’aver fatto ricorso alla psicanalis­i in alcuni momenti di vita-carriera. Bellocchio a metà anni 80, Fellini dopo lo sconquasso provocato dalla Dolce vita.

Bellocchio, come e quanto ha influito l’analisi su voi due? È un elemento in comune?

«Certo, ma la differenza è come ne siamo stati coinvolti, anche perché il professor Bernhardt che ha ascoltato i sogni di Federico era junghiano accanito, il professor Fagioli era un eretico, contro ogni maestro».

Quanto vi ha mutati?

«Io Fellini non lo conoscevo bene, vado per intuizioni. Penso di essermi messo più in gioco io, alzando la posta su due mutazioni, una ideologica nell’impegno politico, e una personale, nella scelta di curare la mia mente. Quest’ultima non credo fosse fra le intenzioni di Fellini. E poi ci sono vent’anni in mezzo».

Cioè ha cambiato se stesso con l’analisi?

«Seppi cambiare prima di tutto me stesso con la terapia, mentre Fellini in fondo, grazie anche quel filo nascosto di una sua costante dimensione di divertimen­to, non ha mai messo in discussion­e la sua vita personale e i propri costumi».

I suoi rapporti col Maestro?

«È buffo. Quando feci il secondo esame di ammissione come regista al Centro Sperimenta­le c’era da scrivere un saggio e io scelsi Fellini, ma chiesi aiuto a mio fratello Piergiorgi­o che lo conosceva meglio. La mia fu, e me ne dolgo, una scoperta tarda, ma poi nacque una grandissim­a ammirazion­e».

C’erano altri maestri?

«Da adolescent­e sulla rotta Piacenza-milano era altro il nostro cinema. A 20 anni erano altre le sirene, la nouvelle vague e Antonioni con l’incomunica­bilità e poi Bergman».

Quando si è accorto del gigante Fellini?

«Fu la genialità della Dolce vita e con 8e

«Avevo l’impression­e che non avesse voglia di parlare di sé, ma era curioso degli altri»

Marco Bellocchio, 80 anni, nato a Bobbio (Piacenza), è un pluripremi­ato regista: nel ‘67 si è aggiudicat­o il Leone d’argento a Venezia per «La Cina è vicina». Nel ‘91 ha vinto l’orso d’argento, gran premio della giuria al Festival di Berlino per «La condanna». Nel 2011 gli è stato assegnato il Leone d’oro alla carriera

Certo, qualcosa poi era di maniera come Giulietta degli spiriti o La città delle donne».

Come giudica l’opera felliniana?

«Guardando all’opera complessiv­a credo sia una vera, reale, precisa rappresent­azione dell’italia per farla conoscere in profondità ai giovani. Anche divertendo­li, per esempio coi Vitelloni, altro film strepitoso. Orson Welles disse che dopo Quarto potere poteva solo scendere, Fellini invece ha realizzato capolavori diversi, la sua creatività si è moltiplica­ta. Se vuoi capire il nostro Paese, vedi i suoi film: La dolce vita è un romanzo di storia. Parlo di lui e comprendo la sua squadra, Flaiano, Rota, Gherardi, la dimensione collettiva del cinema».

E l’incontro con Mastroiann­i?

«Era un bravo attore popolare, con La dolce vita è diventato un’immagine internazio­nale, un simbolo».

Veniva da Rimini e lei da Piacenza, siete arrivati a Roma dopo.

«Fellini si è romanizzat­o con tre film che parlano della città. Mi piace di lui l’andare e venire dei temi da un film all’altro di cui riconosci le emozioni, come i refrain musicali di Rota. Titoli come La strada possono essere anche lontani nel tempo, ma si impone l’opera nel suo insieme. Naturalmen­te poi arriva una fase in cui è come se la dimensione della morte diventasse più evidente per il fatto stesso che hai bisogno di negarla. In Ginger e Fred o E la nave va si sente molto questa eco di morte in arrivo ma sempre con suprema ironia».

Pensi che sia stato un profeta nel trattare alcuni temi con forte anticipo?

«Sì, e ha avuto molti imitatori. Sono nate parole come fellinismo e immagini alla Fellini perché come tutti i grandi Maestri, conferma che solo raccontand­o l’italia si diventa grandi all’estero. Non volle lasciare l’italia nonostante le offerte e non ha mai accettato il teatro, l’opera, il circo: era cosciente delle sue risorse, e sapeva quale fosse il suo mezzo di espression­e».

Che rapporti hai avuto con lui?

«L’ho visto qualche volta ma non l’ho conosciuto davvero, non ho avuto rapporti personali. Avevo l’impression­e quando lo incontravo che non avesse voglia di parlare di sé, ma era molto curioso degli altri, curioso di vita. E la cosa strana era che non andava quasi mai al cinema, come del resto Ferreri».

Qual era il suo sentiero maestro?

«La matrice era mista, un po’ il varietà, il circo, clown e avanspetta­colo: la collezione in questo senso è ricca di capolavori. Ma insisto, è una storia del Paese, anche nella commistion­e fra i vari temi, politica e religione, corruzione, donne, sesso».

Una sua dote sconosciut­a?

«Era spiritosis­simo. Tutto quel mondo è cambiato, ma lui era una miniera d’oro. Rimettere a fuoco Fellini è essenziale per la cultura italiana: è un grande artista che corrispond­e alla sua celebrazio­ne, mentre il mondo è assalito, come aveva spesso previsto invocando un po’ di silenzio, da miliardi di immagini e sciocchezz­e. I giovani devono conoscerlo, non possono non sapere chi sia, è una fitta al cuore».

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