I RICORDI
«Questa non l’ho mai raccontata a nessuno», mi scrisse a un certo punto, «ma è una storia proprio divertente...». I fogli con le risposte battute a macchina mi arrivarono dentro una busta. Era il 2002 e Tullio Kezich, il grande critico cinematografico del Corriere che sarebbe scomparso nel 2009, aveva accettato di farsi intervistare da me, giovane studente dell’università di Padova impegnato in una tesi in Storia del cinema. A quasi dieci anni dalla morte di Federico Fellini, di cui era stato amico e biografo, Kezich tornò con la memoria agli inizi della carriera del regista. Anni complicati. Perché è facile dire adesso che è stato un gigante del cinema mondiale, forse il più grande di tutti. Allora le cose andarono diversamente.
I guai cominciarono già con la prima opera tutta sua, Lo sceicco bianco. «Un film talmente scadente per grossolanità di gusto, deficienze narrative, convenzionalità di costruzione, da rendere legittimo il dubbio se tale prova di Fellini regista debba considerarsi senza appello» (Nino Ghelli, Bianco e nero, settembre-ottobre 1952). Ma il vero disastro fu La strada: l’autore «non si è reso conto nell’involucro della sua decantata solitudine, di aver portato, Firma del «Corriere» con questo suo
film, l’attacco Tullio Kezich (Trieste 1928 Roma
più a fondo, dall’interno, 2009, sopra con Fellini) al realismo è stato critico cinematografico, cinematografico commediografo, sceneggiatore italiano. e autore di molti libri E per realismo intendiamo umanità, solidarietà, affetto e interesse per la vita, senso di responsabilità nel contribuire, con l’arte, alla comprensione dei nostri simili» (Ugo Casiraghi, l’unità, 8 settembre 1954). Meno male che con La strada Fellini avrebbe vinto il primo dei suoi cinque Oscar.
Poi arrivò nelle sale Il bidone. «L’assurdità della trama, la narrativa sghemba e slegata, la volgarità dei fatti rappresentati si sommano in un’opera totalmente mancata. Che è tra le più sgradevoli e infelici di tutta la storia della cinematografia» (così Umberto Barbaro, sommo critico di vocazione marxista e tra i fondatori del Centro Sperimentale di Cinematografia, su Vie Nuove, settembre 1955). Quindi Le notti di Cabiria. «Siamo di fronte a caricature di personaggi, caricature di emozioni, simulazioni di poesia» (Corrado Terzi, l’avanti!, 12 maggio 1957). Ma a Hollywood è un altro Oscar.
La prima della Dolce vita, il 5 febbraio 1960 al Capitol di Milano, finì sui giornali nelle pagine di cronaca. «Un tale mi ha sputato sul collo — raccontò l’indomani Fellini al Giorno —e quando mi sono voltato mi ha gridato in faccia: “Si vergogni! Si vergogni!”». Palma d’oro a Cannes, La dolce vita diventa anche il maggiore successo di pubblico nella storia del cinema italiano. Ma questo è l’editoriale del Secolo d’italia del 7 febbraio: «Che cos’è dunque questa Dolce vita? Sarebbe facile dire, e dicendo il vero, che è una menzogna e un insulto e, per usare il linguaggio del film stesso, una “schifezza”. Ma questo film merita più paziente attenzione. Perché è un film importante, come è importante un attentato alla nazione, alla società, alla morale». Basta!, è il titolo dell’editoriale
Non andava a vedere lavori di Visconti né di altri colleghi, a eccezione di Kurosawa e Bergman
Cinema
In alto Giulietta Masina in una scena di «La Strada», qui sopra Marcello Mastroianni e Anita Ekberg in «La dolce vita» dell’osservatore Romano l’8 febbraio, primo di una serie di articoli (tutti non firmati) contro il film, scritti secondo alcuni dal direttore, conte Giuseppe Della Torre, e per altri da un collaboratore illustre, Oscar Luigi Scalfaro.
Tullio Kezich nel 1960 aveva 32 anni ed era già una firma di peso nel dibattito culturale, oltre che sceneggiatore e commediografo. Durante le riprese della Dolce vita era stato accanto a Fellini praticamente ogni giorno. «Vista la fama di disimpegno che circondava Federico — rifletteva 42 anni dopo —, La strada fu bollato sull’unità e dintorni come film spiritualista criptocattolico. Del resto anche Miracolo a Milano di De Sica, avversatissimo a destra, fu accolto con sospetto da una certa sinistra in quanto pareva che le favole non dovessero avere diritto di cittadinanza nel mondo reale; e