«Quando improvvisammo una scena della Dolce vita»
Così nel 2002 Kezich raccontava l’amico: «Bollato da sinistra come disimpegnato»
dei sogni, dove per anni hai tenuto la cronaca illustrata delle tue fantasticherie notturne, è sepolto nel caveau di una banca? E che si può tirarlo fuori solo alla presenza degli eredi?
«Sarebbe una gran scena da mettere in un film. I funzionari estraggono il librone e l’avido gruppetto degli eredi si butta sulle pagine...».
Se dei tuoi film se ne dovesse
che ai sottoproletari si dovesse opporre la figura dell’“operaio cosciente”. I marxisti non capirono che l’opera di Fellini, anche sotto il profilo dei modi di produzione, era filiazione diretta del neorealismo rosselliniano, la loro fu vera ottusità critica. L’opposizione clerico-fascista a La dolce vita ebbe in un altro momento motivazioni più serie: gli scribi della destra sentirono che quel film rifletteva il cambiamento della società che avrebbe visto la fine del potere reazionario e ridicolizzato le smanie di bigotti e nostalgici».
Non tutti per fortuna seguivano la corrente. Montanelli dopo aver visto La dolce vita scrisse: «Non siamo più nel cinematografo, qui. Siamo nel grande affresco. Fellini secondo me non vi tocca vette meno alte di quelle che Goya toccò in pittura, come potenza di requisitoria contro la sua e la nostra società».
Giudizi indigesti per i critici militanti dell’epoca. «Chi ballava da solo, ispirandosi a esperienze e scelte personali, in quegli anni era guardato con sospetto — ricordava Kezich nell’intervista — : bastava non essere onnipresenti nella campagna delle proteste e delle firme, o non concedersi facilmente alle frequenti mobilitazioni della sinistra o della destra, per venire iscritti d’ufficio nel partito opposto. In ogni epoca il lavoro culturale rischia di impigliarsi nei luoghi comuni: è compito degli artisti veri quello di ignorare o rovesciare i canoni correnti». E la rivalità con Visconti, quanto si detestavano davvero? «Ai tempi la guerra fra Fellini e Visconti fu una cosa seria, con cazzottature e interventi della polizia. Fu uno sfogo di antipatia provvisoria e un gran divertimento per i gazzettieri che ci intingevano il pane. Certo, le poetiche di Federico e Luchino erano agli antipodi, tant’è vero che anche dopo la riconciliazione (sulle prime forse poco convinta, poi caratterizzata da improvvisa stima e affetto reciproco) ognuno restò della sua opinione. Visconti criticava i film di Fellini e Fellini evitava di vedere i film di Visconti; e anche quelli di quasi tutti gli altri colleghi, a eccezione (ma non sempre) di Kurosawa e Bergman».
Nel libro La dolce vita con Federico Fellini, Kezich descrive le riprese della scena della conferenza stampa di Anita Ekberg, girata improvvisando, con veri giornalisti a interpretare sé stessi e il regista a inventare domande surreali: «È vero che lei fa il bagno nuda nel ghiaccio?», «Le piacciono gli uomini con la barba?». In realtà le domande le scrisse Kezich. «Sì, non l’avevo mai fatto ma è arrivato il momento di confessare: ero su un praticabile sovrastante il salone dell’albergo ricostruito a Cinecittà, e su richiesta di Fellini improvvisavo le domande annotandole su foglietti che buttavo dall’alto. Divertito come tutte le volte che il lavoro diventava un gioco, Federico leggeva ad alta voce i messaggi e sceglieva quelli che gli piacevano. A un certo punto suggerii di far chiedere a un finto giornalista: “Per Cinema Nuovo: il neorealismo italiano è vivo o morto?”. Federico chiese ad Anita di restare perplessa, consultarsi smarrita con l’interprete, e dopo l’imbeccata (“Say: alive!”) rispondere intensamente: “Oh... alive!”».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
salvare uno, quale sceglieresti?
«E perché, già che ci siamo, non salvarli in blocco?».
Ma ti piacciono proprio tutti?
«Sono miei figli. Certo, nei primi anni li amavo veramente i miei film. Poi i film come tali li ho amati meno. Mi piaceva farli, quello sì. Alla fine ho cominciato a godere del lavoro di per sé».
(dal Corriere del 30/10/ 2003)