Rovesciare la prospettiva è un modo per ricercare l’altrove
L’opera
● Città di luce. La mistica ebraica dei Palazzi celesti di Giulio Busi è pubblicato dall’editore Einaudi (pp. CLXXII 408, 75: qui sopra la copertina)
La letteratura mistica degli Hekalot, ovvero dei palazzi divini — avverte Giulio Busi nella strepitosa, coltissima introduzione del Millennio Einaudi che ne raccoglie alcuni tra i principali testi — è «antica, misteriosa, difficile». Ancora più ardua dei testi astrusi della kabbalah, che precede di molti secoli, essendo sorta in ambiente ebraico presumibilmente attorno al II secolo dopo Cristo, ma con radici lontanissime nella civiltà mesopotamica e babilonese. Il lettore, però, non deve scoraggiarsi. Se legge con l’attenzione che merita l’introduzione di Busi, uno dei maggiori ebraisti del mondo, uomo non solo profondo e dotato di conoscenze vastissime, bensì del dono di una scrittura chiara e attraente, si sentirà guidato in quell’universo di simboli, di immagini stupefacenti, di visioni paradossali e all’improvviso «vicine», e potrà soffermarsi su pagine meravigliose.
Il presupposto su cui si fondano è che il mistico, l’uomo qualunque sul quale il Santo fa cadere la grazia perché, attraverso un episodio miracoloso, si trovi dinnanzi a uno squarcio dell’esistenza, di fronte a un baratro colmo di tenebra e luce e subito senta il bisogno di colmare quello squarcio, ha tutte le possibilità per arrivare a Dio. Per farlo, dovrà disporsi in un certo modo: ritirarsi in un luogo solitario, digiunare, lavarsi da attrazioni e preoccupazioni mondane, perseverare nella preghiera, annullarsi. «Chi conosca i paradossi del pensiero contemplativo», scrive
Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer (Milano, Pirelli Hangarbicocca)
Busi, «non può però davvero stupirsi. Trasgredire l’ordine apparente delle cose, rovesciare la prospettiva, girare da sotto in su le certezze del qui, in cerca dell’altrove: questa è la vocazione del mistico».
Per salire, l’adepto degli Hekalot dovrà attraversare fisicamente sette Palazzi, di fronte alla porta dei quali fanno da guardia miriadi di angeli e cherubini irritati perché Dio ha voluto elevare a Lui un essere umano; vedrà esseri gloriosi e disumani, immensi, che con un solo dito congiungono i confini dell’universo; ritroverà le visioni di Isaia, di
Ezechiele, di Daniele; sarà sconvolto dalla violenza di acque e fiamme; udrà canti meravigliosi; contemplerà carri di fuoco, e troni e esseri misteriosi a guida dei carri; finalmente approderà alla soglia del settimo palazzo. Lì, di colpo, ogni movimento si arresterà, scomparirà ogni suono. Perché quello è il Palazzo del Silenzio: «Un silenzio incontaminato, infinito, ineffabile. Silenzio di voci, silenzio di pensieri, silenzio di gesti: tutto è quieto, impercettibile, inudibile». È il palazzo di Dio.
Dio è nascosto da una nube secondo alcuni autori, secondo altri da una specie di cortina. Ma in questa cortina immensa non sono incisi i segni della potenza divina, è incisa la storia dell’umanità: passato, presente, futuro. Che fatto prodigioso ci propongono gli Hekalot! L’uomo che ha superato tutti i firmamenti, tutte le divisioni fra acque e cieli, si trova di fronte all’eternità. E cosa vede? Vede che l’eternità è umana. Vede la spazializzazione del tempo. Abbraccia i secoli, abbraccia le generazioni, abbraccia il Tempo. Vede che l’eternità è il Tempo.
Potrà, così, ridiscendere sulla terra, e ripensare a come tutto questo percorso ha avuto inizio. Gli è stato raccomandato di fuggire dal mondo, di isolarsi, di pregare, di digiunare e, soprattutto, di assumere una postura — adesso lo ricorda — nella preghiera, molto simile a quella che viene raccomandata nei monasteri del cristianesimo orientale. Vale a dire: una postura «accucciata», su un piccolo sgabello, con la testa china, gli occhi al suolo. Chi prega, suggeriscono gli scrittori degli Hekalot, non deve levare gli occhi al cielo, deve guardare in basso, diminuirsi fino a diventare un nulla. Allora, come capitò a Ezechiele, potrà accadergli di avere una visione inaudita. Per esempio, la visione di un carro. E lui, rannicchiato, dovrà «scendere» in quel carro e con quel carro scenderà. Ma perché «scendere» per salire? «Se siamo nel giusto», scrive Busi, «e se il precetto di rivolgersi al basso è davvero al centro delle prescrizioni di cui deve tener conto chi si inoltra verso gli Hekalot, allora la discesa è, di per sé, il messaggio più originario e segreto. Il mistico è fermo, immobile con il corpo. Siede composto con la testa infossata fra le ginocchia. Si aiuta con inni e canti. Sa di dover badare ai propri passi, come se scendesse. In realtà, sta salendo, ma dà le spalle alla salita e guarda la discesa». In fondo alla quale, dopo aver attraversato spazi sconfinati, lo spazio è minuscolo. Quello del cuore. Nel silenzio del quale Dio dimora.
Il percorso
I testi degli Hekalot, le dimore divine, sono «antichi, misteriosi, difficili»