Simone e Tamara, quei minuti vicini alla morte
Il racconto di Moro e Lunger: fortuna ed esperienza
Erano in cordata, Tamara Lunger aveva già superato il crepaccio. Appena Simone Moro è salito sul ponte di neve, gli è invece franato sotto i piedi. «Ho iniziato a precipitare, non mi fermavo, a testa in giù in una gola larga non più di 50 centimetri, era tutto buio, sotto un vuoto di almeno duecento metri. Sentivo gridare Tamara, capivo che rischiavo di tirare giù anche lei». Tamara, dopo il violento strappo, era stata trascinata quasi sul bordo del baratro. «La corda mi stringeva la mano, sono stati due minuti interminabili, non arrivava più sangue, non la sentivo più. Ho pensato: o la perdo, oppure finiamo tutte e due nel crepaccio e nessuno ci troverà più».
Tamara e Simone hanno lo straordinario privilegio di poter raccontare cosa gli è capitato sabato a 5.500 metri sul Gasherbrum I. Rispondono al telefono da Skardu, una delle porte d’ingresso degli Ottomila della catena himalayana del Karakorum. Dopo due giorni c’è buonumore, Tamara tocca troppi tasti del cellulare e Simone scherza: «È come Heidi, con la tecnologia ha qualche problema». Ma quando sale e l’aria diventa rarefatta è una fuoriclasse. «È stata lucidissima, bravissima, capace di soffrire — dice Simone —. Ed è fortissima, è riuscita a tenere me che peso 70 chili, più altri venti chili di attrezzatura».
Ricordano come sono riusciti a uscirne vivi, solo con qualche ammaccatura. Ed è un racconto dove c’entra la buona sorte, ma anche e sopratutto la preparazione. «Mentre cadevo giù ho avuto l’istinto di prendere una vite da ghiaccio — ricostruisce Simone —. L’ho piantata, mi sono appeso sperando che tenesse e con la stessa mano ho iniziato ad avvitarla. La corda era ancora tesa, sentivo Tamara che strillava, così ho messo un cordino che ha fatto da scaletta e ho iniziato a tirarmi su». Venti metri più alto Tamara può finalmente allentare la morsa. «Mi guardavo la
Insieme
Nelle foto in alto Simone Moro e Tamara Lunger durante la spedizione mano, era bruttissima. Ho pensato che avrei potuto perderla, che in futuro avrei scalato con un moncherino. Piangevo, l’emozione era tanta, ma cercavo di ragionare, di restare tranquilla. Ho creato un primo ancoraggio usando l’altra mano e la bocca, stando attenta a non finire in un altro buco che c’era là vicino».
Intanto Simone si organizza per la risalita. «Ho tagliato lo spallaccio dello zaino, preso le piccozze, come un contorsionista in quello spazio ristretto ho tolto le ciaspole e messo i ramponi. E sono salito dal lato a strapiombo, perché quello più interno era pieno di lastre di ghiaccio, temevo che potessero cedere da un momento all’altro».
L’arrivo in cima è come una rinascita. «Ci siamo abbracciati — dice Simone —. Poi ho guardato Tamara e le ho detto per sdrammatizzare: “Brava! Corso di soccorso alpino superato”». A quel punto hanno provato a recuperare anche lo zaino rimasto nel crepaccio. «Però si è incastrato — aggiunge Moro — ho pensato di scendere di nuovo e prenderlo, ma ho perso un rampone. Era un segnale, meglio non insistere».
Inizia a fare sera, Simone e Tamara decidono di tornare al campo base e nel frattempo avvertono i soccorsi. Il giorno dopo un elicottero dell’esercito pachistano li preleva e li porta a Skardu. Puntualizza Moro: «Tutto pagato con i miei soldi, perché c’è qualcuno che già dice che si butta il denaro dei contribuenti...».
Le visite mediche sono l’ultimo tassello dell’avventura. «C’era scritto ospedale ma è difficile consideralo tale. La macchina per fare le radiografie era del 1960. Nevicava all’interno, c’erano dieci gradi sottozero. Meno male che non avevamo nulla di rotto». Simone ha preso, come dice lui, «stangate ovunque», alla schiena e in faccia. Tamara ha finora recuperato la sensibilità di due dita («Spero di essere a posto in un paio di settimane»). La spedizione, la conquista in sequenza del Gasherbrum I e del Gasherbrum II, mai fatta da nessuno in inverno e una sola volta d’estate da Messner e Kammerlander, preparata meticolosamente anche con un addestramento in camera ipobarica, è stata annullata. Confessano di essere tristi, ma di aver imparato molte cose. Simone è comunque orgoglioso: «Premesso che abbiamo avuto una fortuna sfacciata, se siamo qui è grazie al rigore, alla preparazione, e allo zelo di portare sempre dietro tutto il materiale per l’autosoccorso». Tamara è più autocritica: «Siamo stati bravi ma qualche errorino si poteva evitare. Se avessi chiuso prima il mezzo barcaiolo (il nodo che frena la caduta, ndr) avremmo avuto meno problemi».
Rientreranno in Italia non prima della prossima settimana. Ha nevicato tanto, non ci sono voli per Islamabad e dopo quello che hanno passato non vogliono rischiare pure un viaggio in macchina. «Qui nessuno ha le gomme da neve, ogni giorno c’è qualche incidente. Meglio evitare».