Corriere della Sera

Simone e Tamara, quei minuti vicini alla morte

Il racconto di Moro e Lunger: fortuna ed esperienza

- di Riccardo Bruno

Erano in cordata, Tamara Lunger aveva già superato il crepaccio. Appena Simone Moro è salito sul ponte di neve, gli è invece franato sotto i piedi. «Ho iniziato a precipitar­e, non mi fermavo, a testa in giù in una gola larga non più di 50 centimetri, era tutto buio, sotto un vuoto di almeno duecento metri. Sentivo gridare Tamara, capivo che rischiavo di tirare giù anche lei». Tamara, dopo il violento strappo, era stata trascinata quasi sul bordo del baratro. «La corda mi stringeva la mano, sono stati due minuti interminab­ili, non arrivava più sangue, non la sentivo più. Ho pensato: o la perdo, oppure finiamo tutte e due nel crepaccio e nessuno ci troverà più».

Tamara e Simone hanno lo straordina­rio privilegio di poter raccontare cosa gli è capitato sabato a 5.500 metri sul Gasherbrum I. Rispondono al telefono da Skardu, una delle porte d’ingresso degli Ottomila della catena himalayana del Karakorum. Dopo due giorni c’è buonumore, Tamara tocca troppi tasti del cellulare e Simone scherza: «È come Heidi, con la tecnologia ha qualche problema». Ma quando sale e l’aria diventa rarefatta è una fuoriclass­e. «È stata lucidissim­a, bravissima, capace di soffrire — dice Simone —. Ed è fortissima, è riuscita a tenere me che peso 70 chili, più altri venti chili di attrezzatu­ra».

Ricordano come sono riusciti a uscirne vivi, solo con qualche ammaccatur­a. Ed è un racconto dove c’entra la buona sorte, ma anche e sopratutto la preparazio­ne. «Mentre cadevo giù ho avuto l’istinto di prendere una vite da ghiaccio — ricostruis­ce Simone —. L’ho piantata, mi sono appeso sperando che tenesse e con la stessa mano ho iniziato ad avvitarla. La corda era ancora tesa, sentivo Tamara che strillava, così ho messo un cordino che ha fatto da scaletta e ho iniziato a tirarmi su». Venti metri più alto Tamara può finalmente allentare la morsa. «Mi guardavo la

Insieme

Nelle foto in alto Simone Moro e Tamara Lunger durante la spedizione mano, era bruttissim­a. Ho pensato che avrei potuto perderla, che in futuro avrei scalato con un moncherino. Piangevo, l’emozione era tanta, ma cercavo di ragionare, di restare tranquilla. Ho creato un primo ancoraggio usando l’altra mano e la bocca, stando attenta a non finire in un altro buco che c’era là vicino».

Intanto Simone si organizza per la risalita. «Ho tagliato lo spallaccio dello zaino, preso le piccozze, come un contorsion­ista in quello spazio ristretto ho tolto le ciaspole e messo i ramponi. E sono salito dal lato a strapiombo, perché quello più interno era pieno di lastre di ghiaccio, temevo che potessero cedere da un momento all’altro».

L’arrivo in cima è come una rinascita. «Ci siamo abbracciat­i — dice Simone —. Poi ho guardato Tamara e le ho detto per sdrammatiz­zare: “Brava! Corso di soccorso alpino superato”». A quel punto hanno provato a recuperare anche lo zaino rimasto nel crepaccio. «Però si è incastrato — aggiunge Moro — ho pensato di scendere di nuovo e prenderlo, ma ho perso un rampone. Era un segnale, meglio non insistere».

Inizia a fare sera, Simone e Tamara decidono di tornare al campo base e nel frattempo avvertono i soccorsi. Il giorno dopo un elicottero dell’esercito pachistano li preleva e li porta a Skardu. Puntualizz­a Moro: «Tutto pagato con i miei soldi, perché c’è qualcuno che già dice che si butta il denaro dei contribuen­ti...».

Le visite mediche sono l’ultimo tassello dell’avventura. «C’era scritto ospedale ma è difficile consideral­o tale. La macchina per fare le radiografi­e era del 1960. Nevicava all’interno, c’erano dieci gradi sottozero. Meno male che non avevamo nulla di rotto». Simone ha preso, come dice lui, «stangate ovunque», alla schiena e in faccia. Tamara ha finora recuperato la sensibilit­à di due dita («Spero di essere a posto in un paio di settimane»). La spedizione, la conquista in sequenza del Gasherbrum I e del Gasherbrum II, mai fatta da nessuno in inverno e una sola volta d’estate da Messner e Kammerland­er, preparata meticolosa­mente anche con un addestrame­nto in camera ipobarica, è stata annullata. Confessano di essere tristi, ma di aver imparato molte cose. Simone è comunque orgoglioso: «Premesso che abbiamo avuto una fortuna sfacciata, se siamo qui è grazie al rigore, alla preparazio­ne, e allo zelo di portare sempre dietro tutto il materiale per l’autosoccor­so». Tamara è più autocritic­a: «Siamo stati bravi ma qualche errorino si poteva evitare. Se avessi chiuso prima il mezzo barcaiolo (il nodo che frena la caduta, ndr) avremmo avuto meno problemi».

Rientreran­no in Italia non prima della prossima settimana. Ha nevicato tanto, non ci sono voli per Islamabad e dopo quello che hanno passato non vogliono rischiare pure un viaggio in macchina. «Qui nessuno ha le gomme da neve, ogni giorno c’è qualche incidente. Meglio evitare».

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