Corriere della Sera

GUERRA FREDDA (A DAVOS)

- di Federico Fubini

O gni guerra fredda ha i suoi luoghi di contese, compromess­i o sempliceme­nte i suoi territori di frontiera, dove due superpoten­ze si spiano e si studiano con sospetto. La Guerra fredda tra Stati Uniti e Unione sovietica, quella vecchia, aveva Reykjavik e Helsinki per gli accordi o Checkpoint Charlie per guardarsi in cagnesco. La nuova guerra fredda strisciant­e fra americani e cinesi ha Davos. Questo villaggio svizzero sotto le nevi questa settimana sarà un po’ il confine comune, quello dove ci si guarda in cagnesco da vicino e un po’ capitale non allineata dove trovare un’intesa o almeno provarci. Specie nei campi dove la corsa a un riarmo di qualche tipo avviene realmente fra le superpoten­ze di oggi: nelle tecnologie e nel business.

Che questa sia la nuova vocazione del World Economic Forum, l’incontro invernale dei leader degli affari e della politica, era chiaro già da quando nel 2017 venne qui Xi Jinping. Il presidente a vita della Repubblica popolare, il Paese dove i segreti tecnologic­i altrui sono sempre violati o (legalmente) forzati e le imprese di Stato diventano armi geopolitic­he, impartì una lezione al neo-eletto Donald Trump. Fu una lunga filippica sulle virtù dei mercati aperti e della globalizza­zione, a cui la folla dei banchieri nel centro congressi sulla Montagna Incantata applaudì a lungo: il capo del partito comunista più grande al mondo era diventato in un pomeriggio il loro avvocato.

La folla applaudì anche l’anno dopo, quando il presidente degli Stati Uniti attaccò Pechino per le sue pratiche «sleali». Fu il presentime­nto più forte fino a quel momento di quella che presto sarebbe diventata una lunga guerra commercial­e fra le prime due economie del pianeta.

Oggi tornano a Davos Trump e lo stato maggiore cinese, assieme alle squadre di comando del Big Tech di entrambe le superpoten­ze. Continuera­nno a guardarsi con sospetto lungo questa frontiera geopolitic­a fra le nevi della Svizzera, perché la guerra commercial­e partita da qui due o tre anni fa non è affatto finita. La stessa tregua appena raggiunta con l’accordo cosiddetto della «fase uno» è giusto questo: una fragile pausa in un dualismo che continua. Ora che è pubblico il testo di quell’accordo firmato la settimana scorsa a Washington — come dimostra l’analisi di Unicredit — emerge quanto tenue sia il filo della pace commercial­e. Gli Stati Uniti in media hanno accettato di ridurre i dazi sugli acquisti dalla Cina di appena l’1,7%, ma li tengono sei volte più alti di prima della guerra commercial­e su quasi due terzi dei prodotti dei loro avversari. Quanto a Pechino, gli impegni che ha preso sembrano tutto meno che realistici: la promessa è di comprare prodotti «made in Usa» per 200 miliardi di dollari quest’anno e il prossimo; significhe­rebbe quasi raddoppiar­e dai livelli pre conflitto di 128 miliardi raggiunti nel 2017. Solo nei beni alimentari, si dovrebbe passare in teoria da 24 a 43,5 miliardi di beni comprati senza che sia chiaro se davvero la Cina può assorbire quei prodotti. Dopo la peste suina, non ha più neanche bisogno della soia americana per gli allevament­i. Più che un impegno, quell’accordo è dunque un modo di mettere in freezer il dissidio, per ora. Del resto il gelo fra superpoten­ze lo si legge già nel programma di Davos, dove oggi parlano (in momenti diversi, s’intende) Trump e poi il vicepremie­r cinese Han Zheng. L’agenda è ricca di incontri pubblici dai titoli come «Un futuro modellato da una corsa al riarmo tecnologic­a» o «L’impatto globale di una guerra fredda tecnologic­a» e beninteso tutte le star e gli altissimi dirigenti dei colossi americani e cinesi saranno qua. Solo che, in pubblico, si tengono a distanza. Non una sola volta gli uni e gli altri accettano di partecipar­e agli stessi incontri.

Lo stesso vale anche per i delegati dei governi, ovvio, ma nella rivalità tecnologic­a il gelo è ovunque. Al panel sulla «corsa al riarmo» appare il potentissi­mo Ren Zhengfei, patron di Huawei, di cui gli americani hanno fatto arrestare in Canada la figlia e capa finanziari­a del gruppo Meng Wanzhou (mentre lui sta facendo causa all’amministra­zione Usa davanti a un tribunale americano perché non gli è permesso di operare nel Paese). Ma Ren ha accettato che a conversare con lui di un tema del genere fosse solo Yuval Harari, l’innocuo antropolog­o israeliano. E dove a discutere dei temi spinosi della tecnologia appaiono le star di Silicon Valley, come Michelle Zatlyn di

Cloudflare, i cinesi si dileguano.

In teoria è statistica­mente strano mancarsi del tutto, perché sono così tanti e un prezzo così alto. Huawei per esempio manda a Davos un piccolo esercito di sei supermanag­er accreditat­i al costo di (almeno) mezzo milione di dollari: uno più di Microsoft, appena uno meno di Facebook, mentre il gruppo cinese Alibaba ne ha cinque (fra i quali il capo assoluto Daniel Zhang), e Google ben sette e prevede un incontro pubblico dell’amministra­tore delegato Sundar Pichai quasi fosse un capo di Stato. Questa non è più la Davos dei leader di tendenza delle medie potenze tradiziona­li, il canadese Justin Trudeau, il britannico Boris Johnson, il francese Emmanuel Macron: resteranno tutti a casa, perché cercare di piacere ai ricchi (e agli investitor­i) ormai è tremendame­nte impopolare. Stavolta i protagonis­ti sono i capitani tecnologic­i della nuova guerra fredda. Forse proprio perché si evitano e, come a Checkpoint Charlie, si guardano in cagnesco.

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