QUEL GIOCO CON LE PAROLE BOCCIATO DALLA CONSULTA
L a sentenza della Corte costituzionale sulla inammissibilità del referendum abrogativo in tema di legge elettorale – la cui motivazione non è ancora pubblicata, ma è nota nella sua parte essenziale in base al comunicato stampa – è stata commentata in sede politica essenzialmente secondo una lettura di favore o di sfavore in relazione alle diverse posizioni dei partiti. È possibile però, ed è doveroso, esaminarla nel contesto in cui nasce, cioè come pronuncia sui limiti che dalla Costituzione si desumono in materia di possibilità di sottoporre al corpo elettorale quesiti «abrogativi» di leggi esistenti. Questi limiti sono stati da tempo tracciati dalla giurisprudenza della Corte, oltre che dalle espresse previsioni costituzionali in materia: così non si possono ammettere quesiti per l’abrogazione di leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di esecuzione di trattati internazionali; né per l’abrogazione di leggi «costituzionalmente necessarie»; né ammettere quesiti unici su oggetti eterogenei suscettibili di risposte diverse. Tra le leggi «costituzionalmente necessarie» da tempo sono state indicate le leggi che disciplinano l’elezione delle assemblee parlamentari, mancando le quali si paralizzerebbe il funzionamento delle istituzioni costituzionali. Viceversa è sempre possibile proporre l’abrogazione solo «parziale» di una legge, lasciando sopravvivere il resto. Ma c’è un limite a quesiti che tendano a «ritagliare» leggi esistenti, modificandone radicalmente il senso: non si può cioè, attraverso il «ritaglio», tendere a lasciare in vita «pezzi» di leggi che non avrebbero più riferimento agli scopi e alla disciplina per la quale erano nate: in tal modo, infatti, non si proporrebbe tanto una abrogazione, cioè la soppressione di disposizioni esistenti (in luogo delle quali poi il Parlamento potrebbe introdurre nuove discipline, non contrastanti con il senso sostanziale della volontà abrogativa espressa dagli elettori), ma si creerebbero leggi nuove per via di «manipolazione» di quelle esistenti, dando al referendum
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Limiti L’abrogazione parziale di una legge non si può trasformare nella «ricomposizione» di un testo del tutto nuovo
un significato non più abrogativo ma «introduttivo». È vero che abrogare una parte di una disciplina vuol dire inevitabilmente cambiare la portata e il significato di quella che rimane, ma c’è un limite a questo tipo di operazioni, se si vuole mantenere al referendum abrogativo il significato e lo scopo previsti dalla Costituzione.
In materia di legislazione elettorale la Corte ha più volte applicato questi criteri, in particolare escludendo quesiti abrogativi che, se accolti, avrebbero lasciato in vita una disciplina non «autoapplicativa», cioè insufficiente da sola a rendere possibili le operazioni elettorali per il rinnovo, alla scadenza o a seguito di scioglimento anticipato, delle assemblee elettive.
Si può discutere, in astratto, sui limiti di questa giurisprudenza, domandandosi in particolare se davvero sia sempre inammissibile una abrogazione referendaria della disciplina elettorale vigente, anche quando la disciplina «di risulta» sia di per sé sufficientemente completa, magari esigendo solo interventi «tecnici» di dettaglio per poterla applicare: intendendosi naturalmente che gli organi legislativi sarebbero in questo caso tenuti a effettuare tempestivamente i conseguenti interventi obbligatori (un po’ come quando una legge «costituzionalmente necessaria» fosse colpita da una dichiarazione parziale di incostituzionalità per certi suoi contenuti, obbligando il legislatore a ripristinarne la completezza).
Ma nel caso deciso in questi giorni i proponenti del referendum, che colpiva solo una parte della disciplina esistente (quella relativa alla quota proporzionale), proprio per prevenire l’obiezione secondo cui l’eventuale disciplina di risulta non sarebbe stata del tutto «autoapplicativa», mancando il ridisegno dei collegi, avevano fatto ricorso a un escamotage: avevano ricompreso nel quesito anche l’abrogazione «parziale» della recente leggina (n. 51 del 2019) che delegava il governo, in vista della riforma costituzionale approvata che ha ridotto il numero dei parlamentari (ancora non in vigore in attesa dell’altro referendum, quello confermativo), a ridisegnare i collegi elettorali. In realtà questa abrogazione «parziale» tendeva a modificare radicalmente il significato e l’oggetto stesso della legge: cambiava il termine per l’esercizio della delega, e tendeva a trasformare una previsione dettata per adeguare i collegi previsti dalla legge in vigore (applicata nelle elezioni del 2018) alla riduzione approvata del numero dei parlamentari, in una previsione del tutto nuova e inedita, diretta a disegnare i collegi in conformità al «nuovo» sistema elettorale che si intendeva, con una sapiente operazione di «ritaglio» (tale da rendere il quesito di per sé incomprensibile alla sua semplice lettura) far emergere dal referendum abrogativo proposto.
È qui che il quesito raggiungeva il massimo della sua «manipolatività»: usando le parole della legge di delega per raggiungere uno scopo, nell’oggetto e nel tempo, completamente diverso dal suo originario. Non si può ammettere che il quesito referendario, da domanda di abrogazione parziale di una legge in vigore, si trasformi in una proposta di «ricomposizione» di un testo del tutto nuovo: quasi che si potesse procedere avendo a disposizione, come in una sorta di nuovo gioco di società, un archivio di parole e di frasi (quelle che compongono le leggi esistenti), e, scegliendo sapientemente fra queste quelle da eliminare, si riuscisse a dar vita a un discorso completamente nuovo e diverso da quello originario, anche se composto da parole e frasi tratte da quell’archivio. È questo il significato dell’«eccessiva manipolatività» che la Corte ha imputato al quesito dichiarato inammissibile. Era in gioco dunque non tanto la normativa elettorale, ma l’istituto del referendum abrogativo.
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