Corriere della Sera

FRANCO LOI

I 90 anni del poeta L’umanesimo sociale di un operaio sempre attento agli ultimi

- di Cristina Taglietti

«Jer/ la mi giuinessa la te muriva in brass»: «Ieri/ la mia giovinezza ti moriva tra le braccia» dice un suo verso da Liber. Eppure non sfiorisce mai la giovinezza di Franco Loi, poeta, saggista, maestro senza cattedra, che oggi compie novant’anni. Basta andare a trovarlo nella casa milanese dove vive con la moglie Silvana e il gatto Meo (cui parla in dialetto), circondato da libri e da faldoni che contengono fogli sparsi raccolti in sessant’anni di scrittura, per venire dolcemente travolti da un flusso di memorie e riflession­i, di poesia e storia, di citazioni e idee. La voce, ancora salda, arringa e conforta, interroga e consiglia.

Il ricordo della guerra, la filosofia, il pensiero di Dio (lontano dalla teologia dogmatica ma presente in tutte le poesie, anche quando non è nominato), gli autori prediletti, i grandi pensatori, gli amici perduti e gli affetti di una vita scorrono in un unico grande fiume in cui tutto è in relazione con tutto, tenuto insieme dalla inconfondi­bile attitudine a sdrammatiz­zare con ironia e indulgenza. E dall’amore: «Me piasaríss de mí desmentegâ­ss,/ e camenâ, e respirà per tì», «Mi piacerebbe di me dimenticar­mi,/ e camminare, e respirare per te» dicono due versi da Lûnn.

Lo sguardo annebbiato del ragazzo Loi è vigile su ciò che accade nel presente, rivolto verso il faro di un umanesimo sociale sempre attento agli ultimi. È giovane Loi, anche ora che la vista non gli permette più di scrivere perché dalla penna escono «strani geroglific­i indecifrab­ili a chiunque». I suoi versi infiammati dalle piccole eruzioni dell’inconscio, da ciò che amore «ditta dentro» — per citare Dante, sua grande passione letteraria — e da impennate civili che non rinunciano mai a prendere posizione, sono scritti nel milanese imparato da ragazzo, quando il padre ferroviere venuto dalla Sardegna e la madre, originaria della Bassa parmense, si trasferisc­ono da Genova (dove lei era andata «a fare la serva» e dove Loi è nato il 21 gennaio 1930) a Milano. Abbandonat­o dalla città quando si è arricchita «per la vergogna di sembrare poveri, troppo umili» , il milanese nelle poesie di Franco Loi diventa un idioma

personale, contaminat­o da altri vernacoli, appoggiato su un lessico che attinge al gergo operaio, a forestieri­smi, neologismi, dantismi creando un mondo al tempo stesso circoscrit­to e universale. Una lingua sgorgata quasi spontaneam­ente dall’interno, ascoltando la parlata della gente comune («Sentivo i discorsi che sembravano cambiare grazie ai suoni più che al significat­o delle parole») e poi studiata con il Belli. Loi ha ripetuto spesso di aver scelto il dialetto dopo aver capito che «è la lingua dell’esperienza e quindi della vita».

Ragioniere come Eugenio Montale, Loi ha fatto il contabile agli scali merci di Milano Lambrate e poi del porto di Genova, poi addetto alle pubbliche relazioni prima alla Rinascente e in seguito all’ufficio stampa della Mondadori dove viene «scoperto» poeta da Vittorio Sereni, allora direttore letterario della casa editrice. Cantore della Milano popolare e proletaria degli anni Quaranta e Cinquanta, nel 1975 pubblica il poema Stròlegh, uscito da Einaudi con prefazione di Franco Fortini, a cui seguono la visionaria teatralità di Teater (Einaudi, 1978) e L’angel (uscito da San Marco dei

Giustinian­i nel 1981, poi nel 1994 in un’edizione definitiva Mondadori), una sorta di romanzo in versi in progress, oltre a numerose raccolte poetiche in cui il racconto e lo slancio lirico si fondono in una voce chiara e riconoscib­ile, come Amur del temp (1999), Isman (2002), Aquabella (2004). Nel 2005 Aria de la memoria raccoglie una selezione delle poesie scritte tra il 1973 e il 2002.

La sua vita, avventuros­a e dura come possono essere certe esistenze che hanno consumato la loro maggior parte nel Novecento, l’ha raccontata in Da bambino il cielo, l’autobiogra­fia curata da Mauro Raimondi, pubblicata da Garzanti nel 2010: la guerra, i bombardame­nti, la vista dei corpi dei quindici partigiani ammucchiat­i, il 10 agosto 1944, in piazzale Loreto dove, meno di un anno dopo, quindicenn­e, vedrà i cadaveri appesi di Mussolini, di Claretta Petacci e degli altri gerarchi fascisti.

C’è tutto nella storia di Franco Loi: la passione politica, la militanza nel Pci (da cui uscirà nel 1954), il Sessantott­o, la fondazione del Cip (Centro di informazio­ni politiche), l’incontro con Renato Curcio e poi, nel 1983, l’arresto, grossolano errore giudiziari­o, con l’inverosimi­le accusa, poi smantellat­a, di essere il «grande vecchio» delle Brigate Rosse.

Ci sono la sua vita e la sua idea di poesia di cui non si può dire niente di più di quel che hanno già detto tanti altri poeti: «Le parole sono suoni, e l’impiego e l’accostamen­to di una parola o un’altra a una diversa parola non sono determinat­i dalla logica, ma dall’impulso dato dall’emozione». «Puèta, disen, d’òm inamurâ,/ puèta, disen, a chi piang la sera/ e la matina s’alsa desperâ»: «Poeta, dicono, d’uomo innamorato,/ poeta, dicono, a chi piange la sera/ e la mattina s’alza disperato» recita, citando i versi de L’aria. Il poeta, dice a Mauro Raimondi, ha la capacità di immergersi dentro un mare di pensieri, di gioie, di dolori, uscendone bagnato fradicio. «Ogni volta, è come se si mettesse dentro l’infinito, aspettando che parli». Continua a parlare l’infinito del ragazzo Loi. Oggi che i suoi anni sono novanta, la sua voce è ancora più chiara.

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Vernacolo

Ragioniere come Montale, vive tra i libri della sua vita e fogli di versi. Così: «Me piasaríss de mí desmentegâ­ss,/ e camenâ, e respirà per tì», «Mi piacerebbe di me dimenticar­mi,/ e camminare, e respirare per te»

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Il poeta Franco Loi nella sua casa milanese (fotografia di Duilio Piaggesi/ Fotogramma)

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