La mamma di Desirée in aula «Soffriva, io ho chiesto aiuto»
Roma, il processo per la 16enne morta di overdose. «Noi due siamo state felici»
Desirée che indossa abiti goffi. Desirée che si sforza di nascondere la propria femminilità. Desirée che, giorno dopo giorno, si chiude nel profondo di sé stessa. Insomma Desirée Mariottini nelle parole di chi l’ha conosciuta e amata, la mamma, le zie, i nonni.
Entra nel vivo il processo (celebrato a porte chiuse) per l’omicidio della sedicenne trovata morta in un container del quartiere san Lorenzo il 19 ottobre 2018 con in corpo un mix di sostanze stupefacenti. La prima testimonianza è quasi una prova di sopravvivenza: Barbara Mariottini, la mamma, deve superare le pressioni della difesa che vuole disegnare uno scenario di abbandono attorno alla vittima, drogata, stuprata e lasciata morire. Ma Barbara, devastata eppure composta, risponde, racconta, spiega. La vacanza con la figlia a Terracina («Noi due felici»). Il disagio di Desirée per l’handicap al piede («Si chiudeva in sé stessa») fino al rapporto conflittuale con il proprio corpo. Poi la consapevolezza che la figlia stava sperimentando cocaina e hashish e le denunce, quattro nel giro di un anno alle forze dell’ordine e ai servizi sociali («Ho chiesto aiuto a tutti quelli presso cui era possibile farlo»).
E ancora: gli episodi controversi. Quella volta che lei, la mamma, si risolse a chiedere aiuto al padre (dal quale era separata e che aveva un divieto di avvicinamento del giudice) perché Desirée era introvabile: «Me la riportò ma lei lo denunciò perché aveva violato il divieto di avvicinamento». L’altro caso, poco prima della morte, con l’arresto di Desirée per possesso di sostanze stupefacenti che in realtà, emerge, sarebbero state di due ragazze maggiorenni con le quali la ragazza era uscita quel giorno.
Su tutto, lo strazio per la via imboccata dalla figlia. La narrazione di due solitudini, quella di una madre che fatica a comunicare con la figlia e l’altra di una figlia avvitata nella sua stessa introversione. Diverse le interpretazioni offerte in aula. C’è chi come Claudia Sorrenti che assiste le parti civili si dice «convinta che l’udienza ha permesso di approfondire la storia di questa giovane donna ma non ha ancora spiegato i drammatici fatti di quella notte». E si dice fiduciosa che «i consulenti e la polizia scientifica con le loro testimonianze facciano chiarezza». E c’è invece chi, come gli avvocati delle difese, sottolinea la difficoltà a gestire la ragazza. Gli imputati Yusif Salia, Mamadou Gara, Brian Minteh e Chima Alinno sono accusati di concorso in omicidio volontario e violenza sessuale di gruppo, e della cessione di sostanze narcotiche e psicotiche, reati aggravati dall’età della ragazza e dalla condizione di impossibilità di difendersi in cui era stata ridotta, dai futili e abietti motivi. Dice Giuseppina Tenga che assiste il nigeriano Alinno: «Più si va avanti nel dibattimento e più emerge il dramma umano della famiglia della vittima».
Il 27 gennaio saranno ascoltati il padre e il nonno ma anche gli agenti della squadra mobile che hanno svolto le indagini del pm Stefano Pizza e della coordinatrice del pool dei reati sessuali Maria Monteleone.
Gli imputati
Quattro uomini sono accusati di concorso in omicidio e violenza sessuale