Chi controlla i dati di 8 miliardi di utenti
IL 99% DEL TRAFFICO MONDIALE PASSA SU CAVI SOTTOMARINI, MIGLIAIA DI CHILOMETRI IN MANO A STATI UNITI, CINA E RUSSIA MENTRE L’EUROPA È ESPOSTA A BLACKOUT E FURTI
Se dovessimo dar retta al cinese Jack Ma ci sarebbe da avere i brividi. Il fondatore di Alibaba ha appena profetizzato che nel caso in cui dovesse materializzarsi una guerra mondiale ciò avverrà «non con la tecnologia, ma a causa della tecnologia». Agli esperti di intelligence la dichiarazione è suonata perfettamente comprensibile: nella malaugurata ipotesi che prendesse fuoco la miccia di un conflitto planetario, l’innesco non potrebbe che essere il controllo dei cavi sottomarini a fibra ottica.
Stiamo parlando del sistema nervoso centrale delle telecomunicazioni globali. Il 99% di tutto il traffico internazionale voce e dati di 7,7 miliardi di persone passa per cavi lunghi migliaia di chilometri stesi sotto i fondali degli oceani. La proprietà di queste autostrade sottomarine è di chi le posa, mentre la gestione è nelle mani di chi le accende e ne fornisce i flussi di informazioni, ovvero le compagnie elettriche e telefoniche. La loro importanza deriva dal fatto che ricordano tutto ciò che su di essi transita, e interromperli, tagliarli di netto, significa mandare in tilt il sistema informatico di interi Paesi bloccando la fornitura di energia, i sistemi di trasmissione delle informazioni sensibili di ministeri ed istituzioni, le transazioni elettroniche, le comunicazioni via Internet.
Le paure degli Stati Uniti
Il segnale che siamo entrati in una nuova era, che rivoluziona la «geopolitica mondiale» sovrapponendola alla «geopolitica dei cavi», è scattato qualche mese fa, e sotto forma di campanello d’allarme. Il team Telecom della Casa Bianca ha detto no per la prima volta nella sua storia. Il comitato multiagenzia del dipartimento di Giustizia Usa ha bloccato il progetto di realizzazione del Pacific Light Cable Network, un cavo di 12.800 chilometri che dovrebbe collegare direttamente, sotto l’oceano Pacifico, Los Angeles ad Hong Kong, ancora assediata dai tumulti anti-cina. È il primo sistema di cavi composto da 240 canali in una singola coppia di fibre con una velocità di trasmissione di 120 terabytes al secondo. Gli americani parlano di rischi per la «sicurezza nazionale» perché dentro al consorzio che deve realizzare il progetto, insieme ai due colossi Usa, Google e Facebook, c’è anche la Dr Peng Telecom&media group, ovvero il quarto operatore telecom di Pechino.
Due anni fa è stata l’australia, dietro la regia di Washington, a mettersi di traverso, bloccando la realizzazione di un collegamento della cinese Huawei Marine tra Sydney e le Isole Salomone. Non è un caso se dopo quel divieto il colosso di apparati tlc fondato da Ren Zhengfei abbia deciso di vendere il 51% della sua controllata alla connazionale Hengtong. L’obiettivo dello scorporo era quello di dimostrare che gli interessi tra chi fa apparati tlc e chi installa i cavi non coincidono. Una formalità, poiché a nessuna azienda cinese è permesso di «scorporarsi» dagli interessi del Partito.
L’intraprendenza cinese
Nel frattempo la Cina ha steso miliardi di chilometri di fibra ottica e pesa per oltre il 60% della domanda globale, che si attesta sui 600 milioni di chilometri all’anno. Tra i primi sette operatori al mondo, cinque sono cinesi: Hengtong, Futong, Fiber Home, Ztt, Yofc.
Le loro economie di scala non hanno concorrenti, ed hanno finito per terremotare il mercato dei cavi sottomarini, storicamente appannaggio occidentale. La neutralità delle connessioni fino a qualche anno fa è stata assicurata dal fatto che le infrastrutture sono state realizzate da società private occidentali o consorzi internazionali, sottoposti a regole di mercato e finanziati prevalentemente dalla Banca Mondiale, e per conto dell’europa, dalla Banca europea degli Investimenti. Con il modello statalista di Pechino è lo stesso governo a realizzarle, anche per conto delle grandi big tech americane che stanno investendo massicciamente sui «submarine cable» complice l’esplosione del cloud computing.
Questa convergenza di interessi con i colossi Usa — che hanno bisogno di un’incredibile quantità di fibre ottiche di nuova generazione per connettere in tempo reale oltre tre miliardi di dispositivi Android e IOS — preoccupa l’amministrazione Trump, che si trova in ritardo per competenze ed investimenti. Google ha investito in 14 cavi, di 3 ne è proprietaria. Facebook ha investito in 10 progetti, Amazon in 3. La fondazione Itif calcola che nei prossimi due anni sono previsti più di 50 progetti in tutto il mondo, e il mercato dei cavi sottomarini nel 2026 dovrebbe raggiungere gli oltre 30 miliardi di dollari, triplicando le dimensioni del 2017.
L’UE resta indietro
Pechino ha appena «piazzato», in coerenza con la sua politica di espansione, un cavo di 6 mila chilometri tra Brasile e Camerun e avviato il progetto del Pakistan&east Africa Connecting (12 mila chilometri per collegare Europa, Asia e Africa), e un collegamento tra il Messico e il golfo della California. Ma anche Mosca è estremamente attiva.
Un recente rapporto del think tank Policy Exchange ha avvertito che la Russia sta «operando aggressivamente» nell’atlantico, dove i cavi collegano l’europa e gli Stati Uniti. Nella prefazione l’ammiraglio della Marina statunitense James Stavridis ha rilevato come «le forze dei sottomarini russi hanno intrapreso attività di monitoraggio nelle vicinanze dell’infrastruttura di cavi sottomarini. Hanno la capacità di fare un colpo mirato, causando un danno potenzialmente catastrofico».
In questo quadro preoccupa la sostanziale irrilevanza dell’europa, che rischia il blackout tecnologico nel caso in cui Usa, Russia o Cina decidessero di tagliare uno dei cavi sottomarini su cui transitano miliardi di miliardi di dati, dalla fornitura di energia elettrica, telefonia, servizi privati, pubblici e governativi. Non abbiamo né un apparato tecnologico, né un player digitale in grado di competere con la cinese Huawei e con Google.
La gestione dei dati
Quel che almeno dovremmo avere è un server sotto la giurisdizione Ue che consenta di non temere improvvise interruzioni di servizi, di gestione di infrastrutture critiche, di controllo o di perdita di dati per la «chiusura» di un cavo. Oggi i nostri dati, seppur parcheggiati su server europei, sono accessibili ai colossi tech Usa, che li usano a loro piacimento per trarne profitto. La nuova presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha appena confermato al forum di Davos: «La priorità dell’europa è l’autonomia strategica e la sovranità digitale». Il governo tedesco ha realizzato in Germania una rete di sistemi cloud (Gaia) che permette di affrancarci dai colossi americani, poiché si tratta di un «hangar» fisicamente posizionato in Europa. Avrebbe senso metterlo a fattor comune, facendo confluire nella nuvola europea i dati delle imprese pubbliche e private, sanità e università.
Ma ognuno pare andare per la propria strada: Telecom ha appena dato la gestione del suo «magazzino» a Google. Addirittura molte piattaforme universitarie sono state esternalizzate a Google, e dentro c’è tutta la nostra attività di ricerca. Vuol dire esporre quotidianamente il nostro sapere al furto, in cambio di un servizio gratuito. Che in realtà stiamo già pagando, e a caro prezzo.