PERCHÉ L’ITALIA CRESCE MENO DEGLI ALTRI PAESI EUROPEI
Economia e politica Le scelte di bilancio dei recenti governi, dettate dalla ricerca del consenso immediato, hanno prodotto soltanto effetti limitati sullo sviluppo e hanno peggiorato il debito
Il calo del prodotto lordo italiano nell’ultimo trimestre del 2019, a fronte di una crescita, seppur in rallentamento, del resto dell’economia europea, conferma una tendenza in atto oramai da anni. L’italia continua a essere il fanalino di coda in Europa, superata di recente anche dalla Grecia. Dal 2014 al 2019 il reddito nazionale è aumentato di circa il 5% in Italia contro il 10% nella media dell’area dell’euro (9% in Germania, 8% in Francia, 15% in Spagna). Questo risultato non può non far riflettere sulle politiche che sono state messe in atto nel nostro Paese negli ultimi anni.
Per quel che riguarda la politica monetaria non ci sono differenze sostanziali, dato che la Banca centrale europea fissa lo stesso tasso d’interesse per l’immissione di liquidità nei sistemi bancari dei vari Paesi dell’area monetaria. Dal punto di vista della politica fiscale, invece, l’italia ha implementato in questi anni una costante e progressiva espansione. Il saldo di bilancio primario, ossia al netto degli interessi, è sceso di circa 1 punto percentuale dal 2013, a poco oltre l’1% del Pil nel 2019. Nell’insieme dell’area dell’euro, invece, l’attivo primario è aumentato, indicando una tendenza alla restrizione.
Nonostante una impostazione della politica di bilancio più espansiva, l’italia è cresciuta meno dell’area dell’euro. Questa apparente contraddizione suggerisce che l’azione di politica economica attuata dai governi che si sono succeduti negli ultimi cinque anni non sia stata efficace. Anzi, è stata controproducente, visto che ha determinato un aumento del debito pubblico, mentre nella media europea il debito si è ridotto, rispetto al reddito. La fragilità relativa dell’economia italiana è aumentata, a fronte di crescenti incertezze
Dovremmo smettere di fare perno solo sulla spesa pubblica e cambiare finalmente strategia
e tensioni internazionali.
L’inefficacia dell’azione di bilancio deriva da vari fattori. Il primo riguarda la composizione della spesa pubblica, che è aumentata nella parte corrente — ad esempio con misure come gli 80 euro, quota 100 o il reddito di cittadinanza — mentre sono stati compressi gli investimenti, che hanno maggiore impatto sull’attività economica. Il secondo fattore deriva dall’incertezza riguardo al finanziamento delle maggiori spese, determinata da un espediente contabile inventato nel 2011, in base al quale si impegnano i futuri governi ad aumentare l’iva nel caso in cui non vengano trovate altre forme di copertura. Le lunghe discussioni sul cosidetto «disinnesco» delle clausole di salvaguardia hanno creato, anno dopo anno, crescenti timori riguardo a possibili futuri aumenti di tasse, che hanno scoraggiato i consumi e gli investimenti. Infine, il rinvio nel tempo del risanamento fiscale, spesso accompagnato da dichiarazioni pubbliche mirate a denunciare precedenti impegni concordati a livello europeo, e talvolta anche da minacce di uscita dall’euro, hanno alimentato le paure dei risparmiatori e mantenuto elevato il differenziale tra i rendimenti dei titoli di Stato italiani e quelli europei, il cosidetto spread. Ciò si è tradotto in un maggior costo, non solo per l’emittente pubblico ma anche per le aziende e le banche italiane, che devono competere con controparti collocate in Paesi fiscalmente più disciplinati del nostro, dove il tasso d’indebitamento è più favorevole.
La politica di bilancio messa in atto dai governi degli ultimi anni
Tasse Anche un sistema fiscale più favorevole al lavoro piuttosto che alle rendite sarebbe cruciale
non ha prodotto effetti rilevanti sulla crescita e ha peggiorato il debito perché è apparsa chiaramente dettata dalla ricerca del consenso immediato, in particolare prima delle tornate elettorali. L’ironia è che queste politiche non hanno avuto un impatto duraturo sul consenso, che è sistematicamente venuto meno ai governi in carica. A differenza di chi governa, i cittadini sembrano aver capito che la pressione fiscale non si misura guardando alle entrate bensì alla spesa pubblica complessiva, che comunque deve prima o poi essere finanziata con un aumento di tasse. Il debito creato per finanziare la spesa non è altro che un incremento differito di pressione fiscale.
Forse è venuto il momento di cambiare strategia di politica economica, smettendo di far perno solo sulla spesa pubblica e affrontando piuttosto i colli di bottiglia che frenano l’economia italiana, come da anni raccomandano le istituzioni nazionali e internazionali. La lista è lunga, dalla giustizia alla pubblica amministrazione, dalla scuola alla concorrenza. Anche un sistema fiscale più equo e più favorevole al lavoro, piuttosto che alle rendite, sarebbe cruciale per creare incentivi efficaci.
Prima si prenderà questa direzione, abbandonando la via della spesa facile, prima il Paese riuscirà a superare la fase di declino tendenziale nella quale si trova da anni. E prima potrebbe arrestarsi l’erosione di consenso nei confronti della classe politica.