La storia è nostra. Amiamola
La difesa di Carlo Greppi per una disciplina «universale, critica e mai retorica»
Chi era Mohamed Fekini? Fu un grande leader della Resistenza del popolo libico contro l’aggressione italiana: dell’italia giolittiana che tanto piaceva al senatore Croce (il quale si indispettì quando Ferruccio Parri definì quell’italia poco democratica nel discorso di insediamento della Consulta nazionale, settembre 1945). Chi voglia capire il rilievo — per chi studia la storia — dell’infaticabile Mohamed Fekini deve leggere questo pamphlet parenetico e autobiografico di Carlo Greppi: La storia ci salverà (in uscita domani per Utet). Dal quale verrà a sapere quanto ha contato, nella sua scelta di vita, la lettura, propiziata dalla generosità di Angelo Del Boca, delle 347 pagine dattiloscritte cui Fekini aveva affidato il racconto della ventennale lotta di liberazione contro gli invasori italiani. Greppi ricorda più volte — nel corso dei cinque capitoli che compongono il suo scritto — una frase di Fekini: «Non desideravo il male, ma quando l’ho incontrato gli ho tenuto testa».
Greppi parla spesso di «maestri» e qualifica anche del titolo di «eroi» personaggi della storia remota e recente, aborre però la eroicizzazione nonché l’atteggiamento manicheo; anzi, tutto il libro, da un capo all’altro, è rispettoso del «grigio» (colore che nella vicenda storica occupa grande spazio a durevole smentita di chi la legge secondo la comoda polarità bianco/nero). Ed è segno di maturità l’aver posto in rilievo, nel capitolo conclusivo, una pagina di Emanuele Artom, partigiano combattente e però ostile alla monumentalizzazione retorica di quella lotta. Una pagina, scritta a ridosso dei fatti, nella quale si paventa che «tra qualche decennio una nuova retorica venga ad esaltare le formazioni dei purissimi eroi»; e che — dopo un cenno alle varie e diverse ragioni per cui molti si fecero partigiani — culmina nell’ammonimento: «Gli uomini sono uomini».
Il «grigio», Greppi l’ha scoperto presto, quando si è lasciato alle spalle il culto adolescenziale dei «pirati» liberatori degli schiavi vittime della tratta (campo in cui dall’inizio del XVIII secolo primeggiò la liberale Inghilterra) e ha «scoperto» che a loro volta gli stessi pirati adottavano comportamenti schiavistici. Sono però proprio queste esperienze — dalla pirateria alla lotta di liberazione libica —, al pari della riflessione, incrementata da un significativo incontro con Jorge Semprún sulla guerra di Spagna, ad aver portato l’autore, da molto presto, a concepire la storia sempre come «universale»: non la paratassi di tante storie speciali o nazionali ma l’intrecciarsi di queste — in determinati momenti ed episodi cruciali — fino a far assumere, a quegli episodi, un valore generale. E la guerra di Spagna («nuestra guerra» diceva Semprún) è certamente uno di quegli episodi capaci di unificare le tante storie particolari in un nodo che trascende il luogo e il tempo in cui quel fatto si è prodotto. Greppi evoca anche, a tal proposito, la celebre visione polibiana della storia universale «organica» (cioè raccolta intorno ad un centro che le dà senso: la conquista romana del «mondo» secondo
Polibio) e non paratattica.
Alle spalle di questo libro c’è, come l’autore più volte dichiara, la meditazione intorno a due libri fondativi quali l’apologie pour l’histoire di Marc Bloch e l’ancor più profondo What is History? di un empirista costruttivo, mai scettico, come Edward Hallett Carr. E ovviamente molto altro. Ma qui giova ricordare che questa nuova «Apologia della storia» di Greppi, nata sull’onda della risorta sensibilità antifascista suscitata dalla (fortunatamente breve) esperienza «gialloverde» inflitta al nostro Paese, viene da lontano. Giacché di Greppi dobbiamo qui ricordare, come antecedente di questo nuovo libro, il suo saggio laterziano 25 aprile 1945. Esso racconta con piglio di esperto narratore l’insurrezione del Nord Italia scoccata a Genova: quella insurrezione che fu schernita anni dopo dalla vulgata qualunquista come «il giorno in cui si insorse quando non c’era più nulla contro cui insorgere». Non era così. «Senza la guerra partigiana e l’insurrezione la guerra sarebbe stata più lunga e più dura» ha scritto Pietro Secchia nel celebre suo saggio Aldo dice 26×1. Cronistoria del 25 aprile 1945. E Secchia ricorda le parole di Winston Churchill: «Se non ci fossero stati i partigiani italiani noi avremmo avuto il doppio delle perdite e impiegato il doppio del tempo per raggiungere i nostri obiettivi».
Il colore «grigio» nella vicenda storica ha grande spazio, a durevole smentita di chi la legge secondo la comoda polarità bianco/nero