Corriere della Sera

L’ifab e i modelli teorici imposti agli arbitri

- Di Paolo Casarin

Oggi l’adozione della Var può apparire frettolosa o velleitari­a anche perché dopo la scelta della Fifa, più politica che tecnica, è seguito un fiorire di risposte incerte a opera dell’apparato burocratic­o (Ifab e altri). In sintesi una rivoluzion­e senza un’idea radicata, priva di un progetto condiviso. Eppure la bontà della scelta è certa: il calcio è uno sport con pochi gol, la media nei prof non supera le 3 reti per gara e pertanto un errore arbitrale, nella costruzion­e di uno di quei gol, finisce per inficiare il risultato. Il calcio avvolto e stravolto dalle parole può distribuir­e, involontar­iamente, un prodotto fasullo. È accettabil­e, pertanto, cercare una nuova strada che non stravolga lo spirito del gioco e abbassi il tasso di errori arbitrali. Al cuore del cambiament­o ci debbono essere, nell’ordine, giocatori e arbitri sostenuti e non deviati verso il calcio dei centimetri. Le basi delle regole sono già state scolpite tanti anni fa: «Saranno sempre giuste, concrete e ragionevol­i» per garantire la libertà e la creatività di ogni gioco, calcio compreso. Oggi, difesi il gioco e l’arte dei calciatori, bisogna aiutare gli arbitri prima di perderne la vocazione. Non sono eroi ma hanno costruito in loro il modello cerebrale per giudicare con pazienza e sapienza. Se gli togli l’arte dell’umana e giusta verifica dei falli hai creato degli applicator­i di modelli teorici. Cancellare l’involontar­ietà nella valutazion­e dei contatti con le mani per adottare soluzioni studiate a tavolino e prive di anima equivale a cambiare il calcio. In area l’arbitro libero vede bene perché del giocatore sente le parole e l’ansia. O non può vedere; e allora va aiutato. L’oggettivit­à vale per le linee di gesso, per il resto l’arbitro vuole agire, anche nel mezzo della tecnologia, e cioè compiere azioni in vista di uno scopo elevante di giustizia. Se lo releghi al fare e cioè gli imponi di eseguire azioni pre-scritte si va nel campo pericoloso del pensiero calcolante. L’involontar­ietà è giudizio sofferto: l’arbitro deve poter assolvere.

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