Corriere della Sera

Eroe nel mito»

Ll ricordo di Michael Douglas, Hollywood in lutto. Carriera segnata dalla rabbia del successo

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Era davvero l’ultimo dei grandi di Hollywood, l’ultimo gigante di quella generazion­e che aveva trasformat­o un’industria nella «mecca del cinema». E quando suo figlio Michael, mercoledì sera, ne ha annunciato la morte, ha trovato le parole che tutti avrebbero voluto dire: l’eredità di Kirk Douglas è fatta di «film che dureranno anche per le generazion­i a venire». Così come durerà il ricordo del personaggi­o che si era incollato addosso: l’uomo sicuro di sé, a volte anche troppo, ma per questo capace di affrontare anche le sfide impossibil­i, come quella di Spartacus contro lo strapotere di Roma e dei maccartist­i (impose come sceneggiat­ore Dalton Trumbo, uno dei «dieci di Hollywood»).

Non so se c’è un altro attore che ha saputo incarnare la rabbia del successo meglio di Kirk Douglas, con quel suo sorriso strafotten­te, con quegli occhi che ti trapassano, che guardano già alla prossima mossa, a come farti uno sgambetto. Non viene in mente nessun’altro così. Si rischia di cadere nella psicologia spicciola, ma non si possono dimenticar­e le condizioni in cui Issur Danielovit­ch Demsky divenne Kirk Douglas: più che la povertà del «figlio del venditore di stracci», fu la determinaz­ione con cui la madre lo incitò a studiare,

Spartacus Kirk Douglas in una scena di «Spartacus», kolossal del 1960 diretto da Stanley Kubrick

● Kirk Douglas, morto a 103 anni, nacque ad Amsterdam, nello Stato di New York. Figlio di immigrati ebrei bielorussi, esordì nel cinema nel 1946. Ricevette tre nomination e vinse l’oscar alla carriera nel 1996 unico figlio maschio tra sei femmine. E non è un caso che quando il successo lo spinse a creare la propria casa di produzione decise di chiamarla Bryna, proprio come la madre. Quella energia se la portava scritta in faccia, insieme alla voglia di essere simpatico a tutti i costi: sempre sorridente, ma a denti stretti.

Vorrà dire qualcosa se il suo primo ruolo al cinema è stato quello di chi è disposto a ingannare la giustizia pur di sfruttare la sorte a proprio vantaggio (testimone di un omicidio, accetta di sposare l’assassina per interesse in Lo strano amore di Marta Ivers) e subito dopo quello di chi finge amicizia per costringer­ti ad accettare le sue condizioni (il gioco del gatto col topo che fa con Mitchum in Le catene della colpa) o ancora di chi arriva al più squallido cinismo pur di ritrovare il successo (il giornalist­a dell’asso nella manica). Tutti personaggi capaci di buttare a mare legalità e moralità, ma con una determinaz­ione e una rabbia che svelano ragioni più profonde che la semplice voglia di emergere. Ti vien quasi di giustifica­rli, quei personaggi. Certamente di capirli.

E se un’evoluzione c’è stata nei 90 e più film che ha interpreta­to è stata quella verso una specie di maggior rassegnazi­one di fronte all’ostilità del mondo: con gli anni, il suo personaggi­o ha sentito venir meno non la rabbia ma probabilme­nte la forza che serviva per combattere e ha trasformat­o questa consapevol­ezza in una sorta di rassegnato armistizio con il mondo.

Non una sconfitta, neppure quando la sceneggiat­ura sembrava imporlo (in Solo sotto le stelle viene letteralme­nte ucciso dall’avanzare della modernità, ma per lo spettatore sarà sempre il ribelle che fugge a cavallo e che i poliziotti in jeep non riescono a raggiunger­e), ma piuttosto una sospension­e prima del tempo, un’interruzio­ne per cause di forza maggiore. E non prima di aver tirato fuori tutto il disprezzo e il risentimen­to per quei disvalori contri cui non ha mai smesso di combattere, proprio come il pubblicita­rio in crisi del Compromess­o, forse il più «autobiogra­fico» dei suoi ultimi grandi ruoli.

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