Corriere della Sera

RETORICA PERDENTE SUL CLIMA

- di Lucrezia Reichlin

Oggi, nel mondo, e in particolar­e in Europa, sta crescendo la consapevol­ezza che, in assenza di azioni drastiche per la difesa dell’ambiente, si andrà verso una catastrofe climatica. Questo sta producendo nuove politiche e nuove regole oltre ad influenzar­e l’orientamen­to di chi investe. L’idea che ci avrebbe pensato il mercato a risolvere la situazione non convince più nessuno. Siamo di fronte a quello che gli economisti chiamano un’esternalit­à, cioè il fatto che le attività produttive di singole imprese hanno un costo per l’ambiente che non è riflesso nel prezzo. In questo caso l’esternalit­à tocca quasi tutti gli aspetti dell’attività economica e rende impraticab­ile il modello di consumo che fin qui ha caratteriz­zato le nostre società.

Il consenso tra gli scienziati è chiaro: il cambiament­o climatico è associato a disastri naturali sempre più frequenti i cui costi sono molto ingenti.

Siamo di fronte a un rischio molto più grande di quello di una crisi finanziari­a. Il cambiament­o climatico può portare a eventi irreversib­ili per difendersi dai quali non ci si può assicurare. È urgente quindi mettere in campo politiche adeguate, che arrestino la tendenza al riscaldame­nto della Terra e che permettano di raggiunger­e a livello globale l’obbiettivo di emissione zero per il 2050.

Questo richiederà decisioni radicali per la politica economica, poiché significa limitare e/ o tassare le attività nocive, mettere in campo risorse per favorire le transizion­i ad altre forme di produzione e compensare chi ne sarà penalizzat­o.

In Europa, il «green deal», votato ad amplissima maggioranz­a a dicembre dal Parlamento dell’unione, definisce un nuovo quadro per le politiche economiche comuni che ha al centro la difesa dell’ambiente. Ursula von der Leyen ne parla come una nuova strategia per la crescita.

Secondo il piano tutti gli aspetti dell’attività economica dell’unione saranno rivisti alla luce del nuovo imperativo dell’emergenza climatica. Ci si propone di tramutare l’obbiettivo di emissione zero per il 2050 in legge, di dimezzare le emissioni per il 2030 e di stabilire standard per i beni manufattur­ieri in modo da incentivar­e l’economia circolare. Per esempio dal 2021 almeno il 40% del bilancio della politica agricola comune sarà dedicato alla riduzione delle emissioni invece che ai sussidi che le alimentano.

Nonostante il piano sia stato criticato per non essere abbastanza ambizioso, è ovvio che comunque comporterà grandi trasformaz­ioni e una riallocazi­one tra diversi settori produttivi, penalizzan­do in particolar­e alcuni settori chiave del manifattur­iero. È certo che i costi si distribuir­anno in modo diseguale tra Paesi, settori e gruppi di lavoratori.

Nella discussion­e pubblica si è enfatizzat­o l’aspetto «winwin» (comunque vincente) del green deal. Per esempio il fatto che ci siano sul piatto nuovi fondi per l’investimen­to pubblico, che attraverso le politiche ambientali si potranno superare i limiti alla spesa previsti dal patto di Stabilità (cosa peraltro per nulla scontata) e che questa missione darà al progetto europeo una rinnovata direzione comune in grado di superare le divisioni degli ultimi anni.

Questa retorica del «winwin» a me sembra quanto mai preoccupan­te quanto lo è la mancanza di discussion­e – a livello nazionale, e non solo in Italia – su quali siano le responsabi­lità degli Stati singoli e le implicazio­ni per le politiche fiscali e di bilancio.

Guardando ai fatti, pochi Paesi hanno messo in campo politiche coerenti con l’ambizione del green deal. Per esempio, come ha recentemen­te ricordato Pisani-ferry, solo tre Paesi nella Ue (e l’italia non è tra questi) tassano l’emissione di carbonio a più di 30 euro per tonnellata quando si stima che la tassa compatibil­e con il green deal dovrebbe arrivare a 50 euro per tonnellata nel 2021 e almeno a 100 per tonnellata nel 2030.

Una discussion­e realistica e trasparent­e è quanto mai urgente perché è la condizione per trovare il consenso a un percorso trasformat­ivo. Ma come ha detto il governator­e della Banca d’inghilterr­a Mark Carney siamo prigionier­i della trappola dell’orizzonte: i governi – per sopravvive­re – danno priorità ai problemi immediati e sono struttural­mente inadeguati ad affrontare fenomeni i cui costi ricadono sulle generazion­i future nonostante affrontarl­i oggi ne riduca l’onere complessiv­o.

Ma poiché il pianeta appartiene a tutti bisognerà trovare il modo di definire un’azione collettiva efficace che possa far fronte alle resistenze di interessi costituiti e ai conflitti redistribu­tivi che deriverann­o dalle politiche green.

Il green deal europeo è qualcosa di più di un’insieme di politiche. È una missione che definisce una nuova identità dell’unione e afferma la leadership globale dell’europa sulle politiche ambientali. Ma definire una missione non significa necessaria­mente portare a casa risultati. Il pericolo che, come per l’unione monetaria, interessi diversi non siano ricomposti, ma che, al contrario, le divisioni tra Paesi e gruppi sociali si approfondi­scano, è tangibile. Dopo tante promesse, il fallimento, oltre a essere tragico per il futuro dell’umanità, potrebbe anche essere la tomba dell’unione.

Come al solito la responsabi­lità di evitarlo ricade non solo su Bruxelles ma su tutte le capitali europee, inclusa – ovviamente – Roma.

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