La Rai ha perso l’identità, rifarei lo spot con Craxi
Buona parte della prima serata è prodotta in outsourcing, uno sfregio agli 11.000 dipendenti interni e ai 1.770 giornalisti. Vuol dire che la burocrazia ha stravinto su uomini e prodotti. Ebbi delle furibonde litigate con il dg Pier Luigi Celli su questo. Lui sosteneva che la Rai è un’azienda di processo, non di prodotto. Gli risposi: manda in onda le tue circolari e i tuoi fogli Excel, se fanno il 30 per cento di share hai ragione tu e torto io. E me ne andai a Stream, poi diventata Sky».
Che differenza c’è fra lei e Carlo Freccero, altro genio della tv?
«Non l’ho mai considerato tale. È bravo nell’orale, ma nello scritto non mi ricordo di suoi programmi memorabili nei sette anni da direttore di Rai 2».
Immagino che lei abbia studiato un metodo per sottrarre la Rai ai politici.
«Non è possibile. È la legge a dire che gli azionisti sono i partiti. Matteo Renzi ha provato a dare più potere all’amministratore delegato. In teoria Fabrizio Salini, dirigente bravo e perbene che ho conosciuto a La7, potrebbe decidere tutto. In pratica lo fa con troppa lentezza».
Lord John Reith, il fondatore, fece scolpire all’ingresso della Bbc un motto: «Voi entrate in un tempio delle arti e delle scienze, dedicato alla gloria di Dio e alla diffusione della conoscenza».
«Lo vorrei anche in viale Mazzini».
Sui campanelli di casa sua ho letto «parroco», «viceparroco», «sacrestia». La fanno sentire vicino al Padreterno?
«Né vicino né lontano. Mi stimolano alla preghiera».
So che da questo salotto si diparte un cunicolo che porta all’abside della chiesa di San Salvatore in Lauro.
«Me l’hanno chiuso, purtroppo. Nel 1400 lo usava una principessa per raggiungere l’amante, un cardinale. Però sento ancora messe, canti, orazioni e musiche. Un sottofondo soave».
«Ho scommesso tutto sul rosso, sull’esistenza di Dio», le confessò suo padre Eugenio, ormai prossimo alla fine. Lei su quale colore ha puntato?
«Lo stesso. Era un massone. Si convertì a quasi 30 anni. Paolo VI lo scelse come uno dei pochi uditori laici che nel Concilio Vaticano II misero a punto il cosiddetto Schema XIII, da cui uscì la Gaudium et spes, la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo».
Quando nel 1994 in «Faccia a faccia» gli chiese conto dei suoi valori cristiani, Silvio Berlusconi s’impappinò.
(Ride). «Sì, non aveva le idee chiarissime. Ma se penso a quanto ebbe ragione in politica estera, mi verrebbe da sparare in testa agli altri. L’unico ad aver capito Gheddafi. Il quale sotto la tenda mi disse: “Volete far entrare la Turchia in Europa? Allora ricordatevi del cavallo di Troia”».
Sarà contento che un giovanotto che vendeva bibite allo stadio di Napoli oggi sia il nostro ministro degli Esteri.
«No. Quello è un punto di arrivo, non di partenza. Ma, almeno fino alle dimissioni da capo del M5S, Luigi Di Maio ha mostrato una ferrea tenuta psicologica».
Nell’occupare un posto al sole. È orgoglioso della sua fiction partenopea?
«La rivendico come un’idea vincente. Capii che la Rai avrebbe perso l’esclusiva di calcio e cinema, quindi doveva puntare su cultura popolare e fiction seriale, come oggi si fa con “Don Matteo” e “Il commissario Montalbano”. Umberto Agnelli si congratulò: “La Fiat ha costruito a Pomigliano d’arco la più moderna fabbrica di auto che esista al mondo, ma il modello di sviluppo per il Sud è il tuo, non il nostro”. E dove la trovava la Rai una macchina da soldi che dopo 24 anni tutte le sere sfiora ancora il 10 per cento di ascolti in prime time?».
Però «Agrodolce», la soap opera da lei ideata in Sicilia, durò solo due stagioni.
«L’avevo promessa a Elvira Sellerio, la consigliera della Rai alla quale ho voluto più bene. I produttori esecutivi si rivelarono incapaci, ahimè. Con 8 minuti di esterni a puntata, in un anno avremmo venduto tutto il bello dell’isola».
Una fiction a Venezia sarebbe troppo?
«La proposi a Luca Zaia e Luciano Benetton. Mi parvero allettati. Non hanno capito che i soldi ce li dava l’europa».
Lo chiedo al collega: le piacciono i tg?
«Non li vedo, dico la verità. Se proprio devo, seguo quello di Enrico Mentana, almeno mi confronto con un’opinione».
La tv di Fabio Fazio le garba?
«Il buonismo politicamente corretto mi fa orrore, ma gli ha portato fortuna».
E quella di Bruno Vespa?
«Non la guardo. Però nel genere old fashion resta un signor professionista».
Dell’«isola dei famosi» e del «Grande fratello» che cosa pensa?
«Il primo reality non m’interessa. Il secondo fu una brillante intuizione dell’olandese John De Mol. Un’occasione sprecata. Aiutai Giorgio Gori a trovare i 5 miliardi di lire che gli mancavano per lanciarlo su Canale 5, raccogliendo mezzo milione di abbonati a Stream in tre mesi. Selezionammo Pietro Taricone e Rocco Casalino, oggi portavoce del premier Giuseppe Conte. Era un format esportabile anche in convento. Non è indispensabile farlo con gli imbecilli».
Non le rimorde la coscienza aver sdoganato «Aboccaperta» con Funari?
«La tv parla all’alto e al basso, tiene insieme tutto: è il Paese. Bernabei faceva reclutare le ballerine al Crazy Horse».
Suo suocero mi spiegò che la tv è più distruttiva della bomba atomica.
«Le riferì il giudizio che mi diede Dan Rather, l’anchorman della Cbs. Nei cervelli la tv ha l’effetto della droga assunta a piccole dosi. La trasformazione dei cittadini in consumatori è avvenuta così».
Si sente più torinese o più romano?
«Vivo nella Capitale da 40 anni, ma rimango legatissimo a Torino. Là ho avuto i pilastri spirituali, a cominciare da mio padre e dal futuro cardinale Carlo Maria Martini, che era il prefetto dell’istituto Sociale dei gesuiti dove ho studiato».
L’infarto nel 2018 l’ha cambiata?
«È avvenuto a mia insaputa. M’impressiona il non essermi impressionato».
Lasciando la direzione del «Foglio», Giuliano Ferrara scrisse che «a 63 anni bisogna imparare a morire». Lei va per i 75. Si sente un sopravvissuto?
«Sono morto. E rinato con tre bypass. Per cui ho davanti altri 63 anni, forse 75».
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