Libertà creativa e riscatto: l’arte africana parla al mondo
La fiera Investec Cape Town: un centinaio di espositori e 60 gallerie, anche italiane
CITTÀ DEL CAPO Appare un paradosso, ma l’arte africana che si affaccia al mondo ha un cuore italiano. Di donna. È di Laura Vincenti, torinese, che dirige Investec Cape Town Art Fair, la fiera sudafricana che si sta affermando come la più influente manifestazione (culturale e commerciale) per scoprire gli artisti emergenti, cogliere le tendenze e le prospettive su un’identità artistica che già da qualche anno sta raccogliendo l’attenzione di curatori, musei, collezionisti internazionali.
Così, sotto lo slogan «L’esperienza dell’arte dall’africa al resto del mondo», questa fiera mette insieme oltre un centinaio di espositori e circa 60 gallerie internazionali di cui dieci sono italiane. La crescita e la visibilità internazionale di questa fiera è dovuta a un semplice fatto: Investec Cape Town Art Fair è di proprietà del gruppo Fiera Milano, che in questa manifestazione ha messo cuore, denaro e organizzazione per trasformarla da marginale manifestazione del Sudafrica a un appuntamento importante per un collezionismo curioso, che vuole scoprire un mondo ancora in parte inesplorato. E, perché no, anche trovare nuove forme di investimento.
E parlando di cuori italiani, non è un caso che in questi giorni in due musei, il Norval e il Zeitz Museum of Contemporary Art Africa (Zeitz Mocaa, un silos trasformato con soldi privati in una straordinaria cattedrale dell’arte) ci siano due emozionanti quanto imponenti mostre di William Kentridge, dove l’artista ringrazia la sua gallerista Lia Rumma come fedele compagna di viaggio.
O ancora, grazie all’attenzione di Fabio Troisi, attivo e sensibile direttore dell’istituto italiano di Cultura, l’artista Flavio Favelli, noto anche per le sue opere di impegno civile, ha realizzato, sotto la curatela di Adriana Rispoli, un potente wall painting sulla facciata di un palazzo nel quartiere di Salt River. In scala monumentale, Favelli riproduce la prima pagina dell’11 febbraio 1990 del «Sunday Times», in cui si dà notizia della prima uscita pubblica di Nelson Mandela, dopo 27 anni di prigionia.
E ancora, i collezionisti e mecenati Guido e Paola Giachetti che stanno lavorando per creare progetti pubblici con Alfredo Jaar e, tra altre iniziative, un hotel del gruppo Radisson dove ogni stanza avrà solo artisti africani di qualità. Solo pochi esempi, per sottolineare il ruolo culturale ed economico dell’italia oggi a Città del Capo.
Certo, si sa, il sistema dell’arte è un movimento fluido che cerca sempre nuove suggestioni e ha bisogno di intercettare inaspettate visioni. Basterebbe ricordare la 56esima Biennale di Venezia diretta da Okwui Enwezor, o quella di Ralph Rugoff con grandi presenze di artisti africani, o ancora la Biennale di Dakar o la bellissima mostra ancora in corso al museo Rietberg di Zurigo, completamente dedicata all’arte del Congo.
E non è un caso che tra gli stand (dove sono offerti calici di vino in un clima festoso) sia atteso Hans-ulrich Obrist, direttore della Serpentine di Londra, e si aggirino Cecilia Alemani, direttrice della futura edizione della Biennale veneziana, oltre ovviamente a tanti e importanti (ma non conosciuti) curatori africani.
D’altronde il mercato sta premiando l’arte africana: lo confermano le aste internazionali. Se l’artista è africano, giovane e, meglio ancora, donna, le quotazioni vanno alle stelle. La qualità dell’opera conta sino a un certo punto: «Nessuno parla del lavoro, ma solo dell’identità. L’africa è un grande casino, ma il bello è questo», taglia corto con la sua solita dissacrante ironia Massimo Minini, anche lui tra i galleristi presenti a Cape Town. Una cosa è certa. Emerge nell’arte dei giovani artisti africani una totale libertà creativa con materiali poverissimi (plastiche, tappi di bottiglia, carta igienica, stuzzicadenti...), che si associa a una forma estetica che denuncia rabbia creativa, necessità di un riscatto. Così, da parte dei bianchi, superato il senso di colpa di un razzismo celato, ora emerge un nuovo dialogo col Black Power dell’arte.
«Questa fiera è davvero unica nel suo genere», sottolinea Laura Vincenti. E aggiunge con il sorriso scandendo le parole: «È l’unica fiera in-terna-zio-na-le in Africa». Ovviamente, non vuole e non può competere con Artbasel o Freeze di Londra, ma questa fiera si pone davvero come dialogo tra l’arte cosiddetta africana (va ricordato che ci sono 54 Stati, ognuno con identità artistiche differenti) e l’offerta artistica internazionale.
Un dialogo culturale che diventa anche simbolico. Anzi, politico: «Noi vogliamo rappresentare tutta l’africa, non solo quella subsahariana», dice ancora Laura Vincenti. «Così abbiamo creato un vero ponte tra le due Afriche. Ma non solo: ci rivolgiamo agli artisti africani in diaspora. Quello che emerge è il senso di appartenenza di tutti gli artisti. E gli artisti si stanno riappropriando della loro identità. Interpretando i linguaggi dell’arte contemporanea».
È quello che interessa ad esempio Gianvirgilio Cugini e Claudia Farina, una coppia di collezionisti svizzero-italiani che ospitano artisti africani in residenza e hanno organizzato una mostra a Brescia di arte africana, a Città del Capo per acquisire nuove opere. Li muove la passione per l’arte ma anche un sentimento etico: «In quella mostra volevamo far vedere che i giovani africani non sono solo i disperati che sfidano la morte sui barconi, ma sono anche giovani di talento, persone capaci di emozionare grazie al linguaggio universale dell’arte».