Emanuele Severino La lezione infinita
Un mese senza il grande filosofo Per rendergli davvero omaggio non smettiamo di confrontarci con lui
Dopo la scomparsa di Emanuele Severino, molti esponenti della cultura italiana hanno elogiato la grandezza filosofica del suo pensiero. Merita richiamare l’attenzione su un tratto comune a quegli elogi, perché riguarda il presente e il futuro della filosofia. Sicuramente di quella italiana.
Sono tutti concordi nell’affermare che la filosofia di Severino è espressione originale di un grande pensatore teoretico, rigoroso e radicale. Tale radicalità e rigorosità avrebbero dato luogo a un sistema originalissimo ma concettualmente chiuso, dove tutti gli spazi sono saturi e quello che c’era da dire è stato detto: un quadro dove ogni parte è perfetta così com’è e perciò immodificabile. Da ciò seguirebbe l’insensatezza del permanere all’interno di quel sistema da parte di altri, che in tal caso non solo non apporterebbero alcun contributo «nuovo» alla filosofia, ma finirebbero inevitabilmente con l’essere meri «ripetitori». A ciò è stato anche aggiunto, nella convinzione di evidenziarne la grandezza, che in qualche modo con Severino finisce la filosofia.
A questi elogiatori, con grande rispetto, vorrei chiedere: qualcuno di Loro affermerebbe che con la scoperta freudiana dell’inconscio muore la psicoanalisi? Certamente no, si dice infatti proprio il contrario: con la scoperta dell’inconscio Freud inaugura, avvia la psicoanalisi. Allora, forse, i ragionamenti sopra esposti dovrebbero essere rovesciati: chi pensa che Severino sia geniale, dovrebbe coerentemente riconoscere che lo è perché ha scoperto qualcosa di importante per la filosofia. E se ciò che è stato scoperto è importante, non può essere semplicemente accantonato o ignorato, ma con esso ci si deve confrontare seriamente.
Cosa ha scoperto Severino? Un significato rivoluzionario di «ente». E in cosa consisterebbe questa rivoluzionarietà? La si può illustrare nel modo seguente.
La filosofia, da Platone in poi, chiama «ente» ogni cosa, tutto quello che esiste e non è niente. Ogni determinazione, in quanto è qualcosa e non è niente, è ente. L’ente è dunque la sintesi tra una certa determinazione e il suo essere: il «ciò che-è». Da Platone a Hegel la filosofia ritiene che esistano due tipologie di enti: quelli sensibili e divenienti, che nascono, vivono e muoiono, cioè passano dal nulla all’essere e dall’essere al nulla, e quelli eterni (Idea, Sostanza, Atomo, eccetera), che non nascono e non muoiono, sono da sempre e per sempre. La filosofia contemporanea, da Hegel escluso in poi, mostra — sulla base di un ragionamento coerente alle premesse stesse della nascita della filosofia — che gli enti eterni non esistono. Il motivo di fondo è questo: gli enti eterni rendono impossibile l’esistenza degli enti divenienti, perché ne soffocano il libero divenire; e poiché quel libero divenire è innegabile, è necessario riconoscere che gli enti eterni non esistono. L’eterno viene liquidato come un vano tentativo di dare senso all’esistenza, che produce l’effetto contrario. Come un abbraccio che finisce per soffocare. L’unica verità, autoevidente, è il divenire di ogni cosa. Qui la verità non è un contenuto, ma la stessa processualità, temporalità, storicità, attualità. I grandi sostenitori inaugurali di questa prospettiva sono Nietzsche, Heidegger, Gentile per citarne alcuni. È interessante notare che talvolta chi si allontana da Severino per cercare l’originalità, ricade poi — poco originalmente — in una di queste posizioni o nella mescolanza di alcune di esse.
In questo quadro Severino si rivolge al significato «ente» con il rigore e la radicalità della filosofia teoretica, che non accetta presupposti ingiustificati, e ne mette in luce il tratto fondamentale: essere ente significa essere un certo «esser-sé»: la penna è penna, la carta è carta, eccetera. Ma cos’è e cosa significa «esser sé»? — chiede Severino. Con le sue parole: «Esser sé è insieme il proprio non essere altro». Esempio: penna è penna in quanto è insieme non foglio, non tavolo, non cielo e nonniente. Se non si tenesse fermo questo, non vi sarebbe alcuna penna. Non la si potrebbe nemmeno pensare e dire. Severino non sta dicendo nulla che la filosofia non sappia; sta solo richiamando l’attenzione su un tratto essenziale dell’ente. Quando si dice «carta» non si dice cenere ovvero si dice già non-cenere. Ecco il rilievo di Severino: cosa succede quando si dice che la carta (bruciata) è (diventata) cenere? Si dice che la non-cenere è cenere. Il dire (il pensare) entra immediatamente in contraddizione con sé stesso: crede di dire