Corriere della Sera

Via col vanto

- di Massimo Gramellini

Rimango sempre affascinat­o dal modo di ragionare del Trump. Ieri se l’è presa con chi ha assegnato l’oscar a «Parasite». «Era proprio il caso di darlo a un film coreano, con tutti i problemi che abbiamo avuto con la Corea del Sud riguardo al commercio?». I suoi avversari sostengono che ad averlo infastidit­o siano stati i sottotitol­i, dato che non sa leggere. Ma io vorrei prendere sul serio le sue parole. Per quest’uomo d’affari, anche l’arte e i premi fanno parte di una partita di giro. Che «Parasite» sia un bel film è secondario. Conta di più il fatto che il Paese da cui proviene non abbia buoni rapporti commercial­i con gli Usa. Seguendo la logica del Trump, Hollywood non può premiare neanche un film svedese, finché Greta continua a rompere le scatole agli americani sul riscaldame­nto globale. Temo gli sfugga che il rito degli Oscar non appartiene agli Stati Uniti, ma al mondo intero. E che è proprio la convinzion­e, o almeno l’illusione, che tutto quanto è americano appartenga al mondo intero ad avere garantito il primato culturale agli Stati Uniti nell’ultimo secolo. Ma al Trump di questo primato culturale non importa un fico. A lui interessa solo quello economico, senza capire che l’uno è il riflesso dell’altro.

Il critico cinematogr­afico della Casa Bianca ha espresso nostalgia per «Via col vento». Forse di quel capolavoro ricorda solo la battuta di Clark Gable: «Francament­e me ne infischio». Sembra scritta per lui.

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