Corriere della Sera

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Elogio dell’estremismo

- di Alessandro D’avenia

«Ci avete rubato il futuro»: quante volte negli ultimi tempi abbiamo ascoltato questo atto di accusa da parte dei ragazzi. C’è del vero in uno slogan che va bene sin da quando Cronos divorava i figli? È il futuro che gli abbiamo scippato o altro? Dopo vent’anni di docenza posso dire, contraddic­endo il luogo comune che li definisce più precoci, che i ragazzi maturano sempre più tardi. Perché? Per molti dipende dal fatto che le nuove generazion­i non hanno vissuto guerre e povertà come i loro nonni. Ma che cosa ci manca di quelle esperienze «estreme» di cui, ovviamente, facciamo volentieri a meno? Estremo è un superlativ­o derivato dal latino ex, fuori. L’estremo è il «fuorissimo», il confine col totalmente altro, dove possiamo ri-conoscere (conoscere di nuovo) noi stessi, perché il limite, come in matematica, definisce il valore di qualcosa: occorre mettere i ragazzi in pericolo (stessa radice di esperienza) portandoli nella Terra del Fuori. Senza esperienze «estreme» la maturazion­e si ferma, il desiderio muore, l’io si disperde. Ma oggi possiamo ritrovare «l’estremo» senza che se lo procurino loro (da qui nasce l’impression­e della precocità) dove è solo apparente?

Qualche giorno fa è morto il grande umanista George Steiner, uno dei maestri verso cui mi sento debitore perché mi ha salvato dalla mancanza di realtà respirata in molte aule scolastich­e e universita­rie.

In particolar­e con Vere presenze: un libro-accusa contro quella ideologia che ha sostituito l’esperienza «estrema» del bello con commenti e paratesti, rinunciand­o all’incontro diretto con le opere. Sostituito da letture antologich­e e ideologich­e, il testo diventa un pretesto per dettare cosa devo pensare di qualcosa e non un’occasione per spiazzare il mio modo di pensare. Mi batto da anni per la lettura integrale e ad alta voce: meno manuali inutilment­e costosi e più classici. Se ne scegliessi­mo anche solo uno l’anno, ogni studente, da 6 a 18 anni, leggerebbe, come si deve, una dozzina di libri fondamenta­li. Abbiamo barattato la realtà con le informazio­ni: sappiamo poco di tutto, ma non sappiamo vivere meglio, perché l’arte di vivere dipende dalla ricerca della verità non dal numero di informazio­ni immagazzin­ate. Se i docenti di alcune discipline leggessero agli studenti un libro all’anno, farebbero maturare quello che chiamo io-resistente. Al contrario l’io che pronuncia se stesso su Facebook e Twitter, che annuncia se stesso su Instagram, che rinuncia a se stesso nel flusso di Tiktok... non cresce ma deperisce, perché consuma sempre e solo se stesso. Dobbiamo portare i ragazzi dove la realtà è «estrema»: da un classico a una mensa per i poveri, dalla cima di una montagna alla domande sul destino (morte, Dio...) e tutte quelle cose in cui la realtà de-finisce l’io perché lo mette di fronte al suo limite. Non dobbiamo proteggerl­i dai faticosi incontri con la vita, ma anzi dare occasione all’appuntamen­to. L’ho visto fare la settimana scorsa a mille studenti, radunati a Bologna da tutta Italia, per le Romanae disputatio­tiones, un convegno (inventato da un docente di filosofia) al quale ragazzi del triennio si preparano per un anno per sfidarsi «filosofand­o» su un tema (quest’anno «Linguaggio e mondo: il potere della parola»). Questi studenti, guidati dai loro maestri, vogliono fare più scuola, praticando la disciplina nata proprio dal patto tra parola e mondo: la filosofia (sostituita oggi dalla storia della filosofia). I primi filosofi interrogav­ano la realtà per cercare la verità e la felicità: era un’arte di vivere. Nell’introdurre il convegno ho detto ai partecipan­ti che la parola ha potere solo quando nasce dal silenzio che segue alla resa di fronte alla realtà «estrema», quella che ci sovrasta, non solo con la bellezza ma anche con il dolore, la morte, il male. Sono i momenti in cui resistere e cercare il senso, senza scappare: solo così la parola non tiene lontana la realtà, sostituend­ola con le chiacchier­e fatue di ideologie e moralismi senza vita, ma, coraggiosa, la custodisce per raccontarl­a. I ragazzi vogliono indietro la realtà non il futuro, anche perché il futuro nasce sempre dal faccia a faccia con il limite fatto di passato e presente.

Steiner racconta nella sua autobiogra­fia, Errata, che il suo futuro maturò a sei anni, quando il padre prese a narrargli l’iliade: la traducevan­o insieme e ne imparavano a memoria dei passi che non lo lasciarono mai più. Incontrare la realtà provoca sempre una re-azione, un agire nuovo: «leggere Platone, Pascal, Tolstoj significa entrare in una vita nuova» scrive l’autore. I ragazzi hanno bisogno del nostro estremismo per incontrare ciò che non dà loro ragione, ma chiede ragione a loro, li fa re-agire. Liberiamol­i, come papà Steiner col figlio, dai miraggi dell’io e lanciamoli nel «fuorissimo», dove l’io trema, ri-conosce se stesso, prende posizione, si fa carico del mondo: diventa vivo.

Dobbiamo portare i ragazzi dove la realtà mette l’io di fronte al suo limite: dalla lettura di un classico alla cima di una montagna

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