Corriere della Sera

«I sensori sul Morandi costavano 10 mila euro Non vennero aggiustati»

Il teste al processo: ma non avrebbero evitato il crollo

- di Andrea Pasqualett­o (Ansa) apasqualet­to@rcs.it

«Andò così: nel 2015 si erano rotti i cavi delle fibre ottiche che collegavan­o i sensori al sistema di monitoragg­io del ponte Morandi. L’avevamo installato noi, il sistema, e quindi Autostrade ci ha contattato per capire quanto costasse ripristina­rli. Abbiamo fatto un prezzo ma tutto è finito lì».

Non avete quindi riparato i cavi rotti?

«No».

L’avranno fatto altri.

«Non credo».

Quale era il prezzo?

«Una cosa contenuta, mi pare diecimila euro».

Quando è crollato il ponte, Alessandro Paravicini pensò naturalmen­te a quei sensori. La sua società, la romana Tecno.el, li aveva prodotti e sistemati per anni sul viadotto genovese proprio per prevenire rischi legati alla stabilità. Paravicini è così diventato un testimone chiave dell’indagine di Genova sul disastro del 14 agosto 2018, nell’ambito della quale è stato sentito.

Alla notizia del crollo quale fu il suo primo pensiero?

«Pensai che sarebbe stato meglio se il sistema di monitoragg­io fosse stato attivo».

Avrebbe potuto evitare il disastro?

«È difficile che il ponte si potesse salvare grazie ai sensori. Si tratta di una struttura isostatica, nella quale l’equilibrio delle forze è particolar­e. Se una di queste viene a diminuire, il processo di accelerazi­one del crollo diventa molto veloce e quasi inevitabil­e. In questi casi i sensori che segnalano il movimento struttural­e servono a poco perché i tempi di reazione sono troppo lunghi».

Quali sono normalment­e i tempi di reazione?

«Dal momento in cui i sensori registrano la variazione a quello in cui si decide di chiudere il ponte possono passare anche quattro giorni».

Ma allora a cosa servono sensori? i

«A rilevare gli spostament­i nel tempo».

Se il cedimento fosse iniziato tempo prima sarebbe stato captato?

«Sì, in questo caso il sistema sarebbe servito. Ma da quel che è emerso finora mi sembra si tratti di un’ipotesi improbabil­e. In ogni caso, se era attivo avrebbe potuto dare almeno delle informazio­ni sulle cause del crollo, agevolando il compito degli inqui

renti che le stanno ancora cercando. Il sistema ci avrebbe cioè raccontato se un’ora prima del cedimento era successo qualcosa. Così invece non abbiamo dati».

I sensori hanno mai registrato pericoli?

«No, quando erano funzionant­i non hanno mai segnalato importanti variazioni».

Possibile che per risparmiar­e 10 mila euro abbiano rinunciato a riparare il guasto?

«Non penso proprio che il motivo della rinuncia fosse di natura economica. Forse avevano pensato di far rientrare la spesa nell’intervento più complessiv­o e struttural­e di retrofitti­ng che era stato programmat­o e che purtroppo non hanno realizzato. Come quando c’è una lavatrice che traballa e non si cambia il pezzo ma si attende di sostituirl­a interament­e».

Sul ponte c’era però di mezzo la sicurezza di chi lo attraversa­va…

«Era per dire dei ragionamen­ti che si fanno quando si tratta di fare un investimen­to, per quanto insignific­ante possa sembrare».

Quando avete iniziato a lavorare sul ponte Morandi?

«La prima installazi­one è di poco successiva all’intervento di rinforzo degli stralli della pila 11 (anno 1993, ndr). Era un monitoragg­io fatto per la verifica della tesatura dei cavi. Dopodiché il sistema è stato smontato e rimontato più volte, evolvendos­i nel tempo, fino all’utilizzo delle fibre ottiche. Ma molti dei punti di misura erano rimasti quelli dell’epoca».

La pila 9, quella crollata, aveva dei sensori?

«Certo, erano collegati attraverso le fibre a quelli installati nella 10 e nella 11, dove esisteva il sistema di trasmissio­ne dati. Sono quelli che avrebbero potuto raccontarc­i cos’è successo quando il ponte è crollato».

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I lavori di ricostruzi­one del viadotto: sono stati completati i 18 piloni della nuova struttura
Genova I lavori di ricostruzi­one del viadotto: sono stati completati i 18 piloni della nuova struttura

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