Marcella, vita da fotografa: così ho raccontato le donne
Fu una delle prime freelance a girare l’italia. «Ho sfidato tanti tabù»
La donna che ha visto trascolorare un secolo ha gli occhi azzurri, la lucidità di una studentessa e la voce ferma. E nonostante sia prossima ai 101 anni (li compirà il 27 aprile) Marcella Pedone ricorda ogni dettaglio della sua incredibile carriera, cominciata alla fine degli anni Cinquanta, quando decise che avrebbe girato l’italia da sola fotografando persone, donne soprattutto, cambiamenti, paesaggi.
Una vita condensata anche nei 177 mila scatti che Pedone ha donato al Museo della Scienza e della tecnologia di Milano, assieme alle sue Rolleiflex, Hasselblad, Mamya e Nikon, con le quali ha lavorato fino ai primi anni del Duemila. Ogni scatto racchiude una storia. «Guardi questo paesino abruzzese — dice mostrando un’immagine con il Gran Sasso sullo sfondo —: si era svuotato, tutti erano emigrati in cerca di lavoro. Poi sono tornati e hanno rimesso a posto il borgo. Si chiama San Giorgio». Nel salotto della sua casa milanese dove vive da sola tra libri di filosofia e uno sterminato (ma ordinato) archivio, Pedone racconta: «Andavo da sola anche in posti in cui, all’epoca, per una donna era proibitivo recarsi. Una volta in un paesino lucano le signore del luogo mi invitarono a confessarmi. Sbigottita chiesi perché e loro risposero: “perché porti la macchina da sola”. Per loro era peccato».
Nata a Roma da genitori toscani, ma vissuta a Milano, Pedone si è inerpicata fino in cima all’etna, ha scalato le cave di marmo della Toscana assieme ai trasportatori di pietra, ha documentato l’ultima mattanza di tonno in Sicilia e il lavoro nelle risaie del Nord, l’alluvione del Friuli del 1965 e una delle ultime apparizioni di Enrico Mattei.
Sempre da sola, prima in auto e poi in roulotte. «Le case editrici appaltavano i lavori solo agli uomini, le grandi aziende diffidavano di una donna che viaggiava senza un maschio vicino. Se eri femmina e spericolata come me le porte del fotogiornalismo si chiudevano. Poco consolava il fatto che tutti, a margine, mi dicessero: “Sappiamo che lei è brava, signorina”».
Non è stato facile per Pedone. E forse è anche per questo che le sue foto più belle sono quelle che documentano la fatica delle donne, mai venata di ideologia. Ha ritratto le contadine calabresi che tornavano a casa a dorso d’asino con i bambini addormentati dentro ceste di vimini, le contadine delle Crete senesi che si spaccavano la schiena sotto il sole, le cantanti dei gruppi musicali ambulanti. Ha fotografato le «vedove bianche» e le braccianti del Nord in pieno boom economico.
Rischiando, proprio per difendere l’indipendenza lavorativa. «Una volta, in Calabria, rimasi appiedata in cima a un colle e un pastore, senza tanti preamboli, mi chiese: “Quanto costi?”». Pedone ha vissuto tanto: ricorda
Lotta impari
«Mi dicevano: lei è brava. Ma poi le case editrici appaltavano i lavori solo agli uomini»
un prete che la cacciò dalla chiesa perché «peccatrice» ma anche una donna abruzzese che, nella sua locanda, la trattò come una figlia. Nessuna traccia di amori in questo racconto lungo un secolo — che l’8 marzo nel museo milanese verrà ripercorso dalla protagonista in un incontro in occasione di Museocity —, perché «ogni volta che qualcuno si avvicinava finiva per diffidare della mia radicale autonomia». Insomma, gli uomini si spaventavano, ma non è solo questo: pochi i cenni alle amicizie («che ci sono state») o alla famiglia («tutti un po’ bizzarri come me»). Dietro Marcella Pedone c’è una tranquilla, solida, intelligente solitudine. Mai dissimulata dalla stessa fotografa, che non smette di fare progetti: «Devo fare tante cose. Ma c’è tempo».
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