ILLUSIONI E VALORI
Le società aperte e il coronavirus Emergono le forme più elementari di pregiudizio verso l’«asiatico» e di chiusura verso la mobilità. Ed è qui il rischio più grande
Dobbiamo imparare a convivere con il virus. E con le sue conseguenze, dall’economia alle relazioni internazionali. Le catene di produzione sono ormai fortemente interconnesse e distribuite su scala mondiale. Anche la più piccola delle aziende domestiche ha, consapevolmente o inconsapevolmente, una parte dei suoi processi di acquisto e di vendita fuori dal proprio Paese e spesso sono collocati su territorio cinese.
Il fenomeno di integrazione produce effetti trasversali: va dai marchi del lusso ai piccoli produttori del Made in Italy, alla Nissan che si ferma, alla Apple che rilocalizza le attività a Taiwan. E passa attraverso i 50 mila voli cancellati da e verso l’italia da inizio anno che a loro volta provocano un calo dei consumi.
È un’illusione proteggersi dietro una mascherina e immaginare di poter staccare la spina con la globalizzazione chiudendosi nelle mura domestiche. Non è così che funziona. E purtroppo (o per fortuna) il governo della complessità e dell’emergenza non richiede risposte locali ma adeguate reazioni transnazionali e possibilmente coordinate. Suona persino paradossale in un mondo riconosciuto da tutti come complesso che risorgano nazionalismi mentre le risposte non possono che essere la cooperazione e forme di governo più evolute. Un esempio su tutti: l’italia decide di chiudere lo spazio aereo con la Cina – scelta che peserà tanto nelle relazioni diplomatiche – con i turisti cinesi che comunque arrivano via Zurigo, Parigi o Dubai. Una risposta comune europea sarebbe stata più efficace.
Il virus ha innescato una paura tribale e irrazionale verso il non controllabile. Ed anche qui può suonare bizzarro che nell’era del controllo, in cui per la prima volta viviamo istante per istante e nome per nome, chi si è ammalato e dove, i suoi spostamenti, conoscendone persino le variazioni di temperatura corporea, all’opposto le reazioni sociali si sviluppino in direzioni inspiegabili, che sembrano perdere il contatto e la fiducia nei dati, nella conoscenza e nella comprensione scientifica dei fenomeni.
Assistiamo così a una perdita del senso di proporzione. Prestiamo assoluta attenzione alla diffusione del virus e a chi si è ammalato per gli effetti subiti che non vanno sottovalutati. Ma sulla Terra gli accadimenti, sia in ambito sanitario (la normale influenza, i casi di morbillo di fronte all’altrettanto tribale reazione no vax, lo sviluppo dei tumori più aggressivi), sia in quello sociale (la strage infinita di pedoni sulle strade), sono altrettanto gravi. Eppure non vi è in questi casi una reazione così forte e costante come quella che sta avvenendo in queste settimane. Come se fossero fenomeni che riguardano «altri».
Gli atteggiamenti e i comportamenti fanno emergere le forme più elementari di pregiudizio (verso l’«asiatico», verso il «non europeo») e di chiusura progressiva verso la mobilità. Ed è qui il rischio più grande che le nostre società aperte incontrano. Tali paure possono sovrapporsi alle espressioni così comuni a tante forme di populismo e di decrescita. Riusciremo a imparare la lezione quando sarà passata l’ondata di questo virus? Riusciremo a guardare con occhi e con impegno diversi chi è malato, chi soffre e quanto sia importante la ricerca scientifica per proteggere la nostra società?
Con riferimento alla dimensione politica, il virus cinese si insinua nell’ambito della già complessa partita politica fra Usa e Cina. Ma qui occorre andare ben al di là dell’immagine di Trump e del suo atteggiamento aggressivo fatto di dazi e di stop and go da tattica commerciale. Occorre interrogarsi su come gli Usa – e non solo il presidente – affronteranno nei prossimi mesi il confronto con la Cina, obbligando di fatto gli altri Paesi a prendere una posizione. Il dibattito negli Usa è molto più trasversale e sembra risvegliare modelli di ragionamento analoghi a quelli già sviluppati in piena guerra fredda e con la strategia post bellica del containment contro il comunismo. È passato quasi inosservato in Europa l’arresto di Charles Lieber, docente di assoluta fama ad Harvard, accusato di spionaggio e di collaborazionismo con il governo cinese. Un arresto che rappresenta la punta di un iceberg di un dibattito profondo che è in corso nelle università americane sul fatto se sia «giusto» o meno formare tanti studenti cinesi, pronti a ritornare in patria e alimentare la forza scientifica e tecnologica della Cina. Anche se la discussione è lecita, non vi sono certo strade percorribili: chiudiamo gli atenei americani ai cittadini cinesi? Impediamo agli studenti cinesi di rientrare in patria? Distinguiamo fra quelli «buoni» e quelli «cattivi»?
Chiudersi nel proprio castello, alzare il ponte levatoio e attendere che la notte passi, è un’immagine medioevale, neppure efficace per quei tempi bui. Le risposte devono essere moderne e complesse, come lo sono le sfide di un mondo che è culturalmente e commercialmente interconnesso. Forme di governo più ampie di quelle del singolo Paese (come l’unione europea), il sostegno deciso alla scienza e alla ricerca, il rispetto delle fonti autorevoli sono la strada che non deve essere smarrita e che va alimentata sempre.
I meriti delle democrazie contano: nel confronto con la Cina, a cui gli Usa ci chiameranno, è corretto commerciare, investire e dialogare. Ma anche promuovere e chiedere senza timore che si propaghino quei valori che sono fondanti del nostro modo di vivere. Pensare di farlo come singolo Paese è illusorio. Riuscirci come europei è una speranza.