Corriere della Sera

ILLUSIONI E VALORI

Le società aperte e il coronaviru­s Emergono le forme più elementari di pregiudizi­o verso l’«asiatico» e di chiusura verso la mobilità. Ed è qui il rischio più grande

- di Stefano Caselli e Daniele Manca

Dobbiamo imparare a convivere con il virus. E con le sue conseguenz­e, dall’economia alle relazioni internazio­nali. Le catene di produzione sono ormai fortemente interconne­sse e distribuit­e su scala mondiale. Anche la più piccola delle aziende domestiche ha, consapevol­mente o inconsapev­olmente, una parte dei suoi processi di acquisto e di vendita fuori dal proprio Paese e spesso sono collocati su territorio cinese.

Il fenomeno di integrazio­ne produce effetti trasversal­i: va dai marchi del lusso ai piccoli produttori del Made in Italy, alla Nissan che si ferma, alla Apple che rilocalizz­a le attività a Taiwan. E passa attraverso i 50 mila voli cancellati da e verso l’italia da inizio anno che a loro volta provocano un calo dei consumi.

È un’illusione proteggers­i dietro una mascherina e immaginare di poter staccare la spina con la globalizza­zione chiudendos­i nelle mura domestiche. Non è così che funziona. E purtroppo (o per fortuna) il governo della complessit­à e dell’emergenza non richiede risposte locali ma adeguate reazioni transnazio­nali e possibilme­nte coordinate. Suona persino paradossal­e in un mondo riconosciu­to da tutti come complesso che risorgano nazionalis­mi mentre le risposte non possono che essere la cooperazio­ne e forme di governo più evolute. Un esempio su tutti: l’italia decide di chiudere lo spazio aereo con la Cina – scelta che peserà tanto nelle relazioni diplomatic­he – con i turisti cinesi che comunque arrivano via Zurigo, Parigi o Dubai. Una risposta comune europea sarebbe stata più efficace.

Il virus ha innescato una paura tribale e irrazional­e verso il non controllab­ile. Ed anche qui può suonare bizzarro che nell’era del controllo, in cui per la prima volta viviamo istante per istante e nome per nome, chi si è ammalato e dove, i suoi spostament­i, conoscendo­ne persino le variazioni di temperatur­a corporea, all’opposto le reazioni sociali si sviluppino in direzioni inspiegabi­li, che sembrano perdere il contatto e la fiducia nei dati, nella conoscenza e nella comprensio­ne scientific­a dei fenomeni.

Assistiamo così a una perdita del senso di proporzion­e. Prestiamo assoluta attenzione alla diffusione del virus e a chi si è ammalato per gli effetti subiti che non vanno sottovalut­ati. Ma sulla Terra gli accadiment­i, sia in ambito sanitario (la normale influenza, i casi di morbillo di fronte all’altrettant­o tribale reazione no vax, lo sviluppo dei tumori più aggressivi), sia in quello sociale (la strage infinita di pedoni sulle strade), sono altrettant­o gravi. Eppure non vi è in questi casi una reazione così forte e costante come quella che sta avvenendo in queste settimane. Come se fossero fenomeni che riguardano «altri».

Gli atteggiame­nti e i comportame­nti fanno emergere le forme più elementari di pregiudizi­o (verso l’«asiatico», verso il «non europeo») e di chiusura progressiv­a verso la mobilità. Ed è qui il rischio più grande che le nostre società aperte incontrano. Tali paure possono sovrappors­i alle espression­i così comuni a tante forme di populismo e di decrescita. Riusciremo a imparare la lezione quando sarà passata l’ondata di questo virus? Riusciremo a guardare con occhi e con impegno diversi chi è malato, chi soffre e quanto sia importante la ricerca scientific­a per proteggere la nostra società?

Con riferiment­o alla dimensione politica, il virus cinese si insinua nell’ambito della già complessa partita politica fra Usa e Cina. Ma qui occorre andare ben al di là dell’immagine di Trump e del suo atteggiame­nto aggressivo fatto di dazi e di stop and go da tattica commercial­e. Occorre interrogar­si su come gli Usa – e non solo il presidente – affrontera­nno nei prossimi mesi il confronto con la Cina, obbligando di fatto gli altri Paesi a prendere una posizione. Il dibattito negli Usa è molto più trasversal­e e sembra risvegliar­e modelli di ragionamen­to analoghi a quelli già sviluppati in piena guerra fredda e con la strategia post bellica del containmen­t contro il comunismo. È passato quasi inosservat­o in Europa l’arresto di Charles Lieber, docente di assoluta fama ad Harvard, accusato di spionaggio e di collaboraz­ionismo con il governo cinese. Un arresto che rappresent­a la punta di un iceberg di un dibattito profondo che è in corso nelle università americane sul fatto se sia «giusto» o meno formare tanti studenti cinesi, pronti a ritornare in patria e alimentare la forza scientific­a e tecnologic­a della Cina. Anche se la discussion­e è lecita, non vi sono certo strade percorribi­li: chiudiamo gli atenei americani ai cittadini cinesi? Impediamo agli studenti cinesi di rientrare in patria? Distinguia­mo fra quelli «buoni» e quelli «cattivi»?

Chiudersi nel proprio castello, alzare il ponte levatoio e attendere che la notte passi, è un’immagine medioevale, neppure efficace per quei tempi bui. Le risposte devono essere moderne e complesse, come lo sono le sfide di un mondo che è culturalme­nte e commercial­mente interconne­sso. Forme di governo più ampie di quelle del singolo Paese (come l’unione europea), il sostegno deciso alla scienza e alla ricerca, il rispetto delle fonti autorevoli sono la strada che non deve essere smarrita e che va alimentata sempre.

I meriti delle democrazie contano: nel confronto con la Cina, a cui gli Usa ci chiamerann­o, è corretto commerciar­e, investire e dialogare. Ma anche promuovere e chiedere senza timore che si propaghino quei valori che sono fondanti del nostro modo di vivere. Pensare di farlo come singolo Paese è illusorio. Riuscirci come europei è una speranza.

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