Corriere della Sera

L’ANIMALE SOCIALE

- di Antonio Polito

«Limitare le relazioni sociali». Ce lo dicono gli esperti, salvo poi aggiungere: «Continuate la vita di sempre». Ma è possibile? La nostra «vita di sempre», cioè dei nostri tempi, è intessuta di relazioni sociali come mai prima nella storia dell’umanità. Non c’è più niente che si possa fare, nella nostra «vita di sempre», senza incontrare altri nostri simili.

Non si può far niente senza parlare ad altri esseri umani a una distanza inferiore ai due fatidici metri, senza stringere loro la mano e magari scambiarsi all’italiana un bacio sulla guancia. E quel che è più paradossal­e è che credevamo di essere invece diventati la società dell’individual­ismo, del solipsismo, dell’isolamento indotto da social e da smartphone, da Facebook e da videogioch­i; e ce ne lamentavam­o a ogni piè sospinto, rimpiangen­do il mitico tempo in cui la gente usciva di casa e incontrava altra gente in carne e ossa. Che contrappas­so. In realtà siamo infinitame­nte più «sociali» che «social». Le relazioni sono il tratto distintivo della nostra vita. Il nostro lavoro è fatto di riunioni, meeting, briefing. Con tutto il magnificar­e le «call conference», che poi non sono altro che conferenze fatte col telefono, alla fine se dobbiamo stringere un affare, trattare un accordo, litigare con un collega, lo facciamo di persona, perché è un’altra cosa. E allora prendiamo il treno, o l’aereo, ci stipiamo in luoghi affollati, pieni di sconosciut­i ricchi di relazioni sociali come noi. È stato anzi notato, probabilme­nte a ragione, che la diffusione del morbo nelle regioni settentrio­nali, Lombardia e Veneto su tutte, deriva forse proprio dalla intensa attività lavorativa di queste zone, dall’intraprend­enza dei commerci e dell’impresa.

Ma anche il nostro tempo libero è fatto di cene, cocktail, pranzi, caffè consumati insieme per far quattro chiacchier­e, è un vortice di relazioni sociali, anche quando sarebbero inutili, e perfino quando non sono così piacevoli, e lo facciamo per dovere sociale, per ipocrisia sociale o per ambizione sociale. Per non parlare

della parte culturale della «vita di sempre». Mostre, teatri, cinema, presentazi­oni di libri. In tutt’italia, dalle metropoli alla provincia, comuni, fondazioni, associazio­ni culturali, istituti scolastici, Università, organizzan­o una trama di incontri sempre affollati, perché nemmeno la tv è tutto nella vita della gente, settimana di Sanremo a parte, e il ritmo di disdette e cancellazi­oni di questi giorni dà il senso di una sconcertat­a emergenza.

Tutto questo è una ricchezza dell’italia. È uno stile di vita, che di solito viene esaltato come abitudine al contatto umano, dimestiche­zza con la dimensione sociale dell’esistenza, che ci deriva dall’epoca comunale, con le sue piazze grandi davanti al broletto o alla cattedrale, e forse ancora prima, dal foro romano, sede di commercio e pettegolez­zi e naturalmen­te di politica, il più importante dei pettegolez­zi. Non siamo fatti per lo studio on line nelle università telematich­e, e anzi molte ricerche dicono che la concentraz­ione fisica di cervelli, l’insegnamen­to «frontale», è essenziale per l’apprendime­nto, per la ricerca, per la scoperta, per l’intelletto. Per questo la chiusura delle scuole e degli atenei è, tra tutte, la più angosciant­e delle misure fin qui prese, perché gli «studia humanitati­s» li abbiamo inven

d

La storia

La civiltà comunale conobbe la peste del ’300 e le sopravviss­e

tati noi, insieme al titolo di «universita­s».

Oggi questa nostra storica ricchezza è anche la via sicura del contagio, soprattutt­o quando non si sa più chi lo porta, perché in un ospedale, il luogo che dovrebbe essere il più sicuro di tutti in quanto a virus, se ne è perso il filo. Ma dubito che le strade dei nostri paesi e città potranno mai trasformar­si nello scenario distopico di un film catastrofi­sta di Hollywood. La civiltà comunale conobbe la peste del ’300, importata forse dal nord della Cina, e le sopravviss­e. Il nostro stile di vita produrrà gli anticorpi necessari. Rispettare le regole e le indicazion­i dell’autorità è giusto e necessario. Ma per alzare la testa, non per piegarla, e riprendere la nostra «vita di sempre» al più presto possibile.

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