Cronache di poveri uomini vissuti di contrabbando
Friuli, Italia: nel romanzo «La malaluna», edito da Solferino, Maurizio Mattiuzza ricrea un’epopea di confine lunga due guerre
Stretta tra le due guerre mondiali, la famiglia Sbaiz, friulana di lingua slovena, attraversa di contrabbando il Novecento e, insieme, l’italia. Andate e ritorni, uomini con la pistola in tasca e donne dal coraggio calmo, tutti abituati a vivere divaricati, friulani «persi fra l’orgoglio della propria lingua e una diffidenza talmente antica da sembrare eterna». Gente abituata all’indifferenza del mondo, che alle attenzioni di un altro non crede mai fino in fondo.
La malaluna , primo romanzo (pubblicato da Solferino) di Maurizio Mattiuzza, poeta, paroliere, performer che anche nei versi canta di guerre, di lavoro, di confronti generazionali, è una storia conficcata nei racconti di famiglia, in una memoria trasmessa di padre in figlio che non contempla eroi ma sradicamenti, vendette, l’accanimento del regime.
Dalla rotta di Caporetto allo sbarco in Sicilia, il romanzo si apre con una promessa — «Padre, io quando muoio, vi vengo a cercare» — e finisce con Giovanni che davvero si presenta, come un’apparizione, al padre ormai vecchio. Valentino Sbaiz detto Tin, fornaciaio sotto l’impero austro-ungarico, la guerra l’ha combattuta giusto per non farsi ammazzare prima e gli è servita per capire che, se i confini si spostano con i trattati, la pellagra rimane ferma sopra i campi e la patria della gente cresciuta nella fame è il mondo intero. È in quel Friuli diviso tra Regno d’italia e Austria-ungheria durante la Prima guerra mondiale, con una popolazione civile strapazzata da tutte le parti, che il racconto di Mattiuzza si radica, innervando la storia con le vicende personali di gente semplice che ha un filo di anarchia nel sangue. Qui, in prossimità della frontiera orientale, il fascismo è una forza che vuole tutti arresi, una paura capace di rendere muti.
Mattiuzza ha voce poetica quando narra la loro appartenenza a quel paesaggio che è anche, in parte, scenario del nuovo romanzo di Giorgio Fontana, Prima di noi (Sellerio). Con le fiammate di indignazione dei suoi protagonisti racconta la brutalità dello squadrismo, impersonato nella figura della spia Enea Zompicchiatti; lo spaesamento seguito allo scoppio della bomba che il 29 ottobre del Diciassette esplode in una colonna di profughi in fuga, «una biscia nera in mezzo alla pianura» a cui gli italiani hanno fatto credere che, rotto il fronte di Caporetto, i soldati di Francesco Giuseppe avrebbero bruciato tutti i paesi fino al Piave. È così che Giovanni, che ha poco meno di 8 anni, e suo fratello più piccolo, Tinaz, restano separati dalla madre e dalla sorella in fuga, mentre il padre è nelle trincee del Carso a combattere una guerra con altri contadini e operai come lui, che vengono da posti in cui non è mai stato e che parlano una lingua che non capisce.
Lo scrittore spezza il racconto seguendo il ritorno di Valentino Sbaiz da una «strana vittoria» che ha comportato «un morto ogni venti metri di terra e migliaia di case bruciate dal Monte Grappa fin quasi dentro l’acqua dell’isonzo». Caporale di fanteria decorato sul Carso di Gorizia, riparte dal paese in cui è nato e dove non è rimasto più nessuno, neanche i gatti, viaggiando di treno in treno o camminando lungo i binari divelti per cercare la famiglia persa nel fiume di profughi in fuga dagli austriaci. Moglie e figlia sono sfollate a Livorno, i due figli a Firenze in un istituto per orfani gestito dagli americani (il più piccolo è diventato sordo e muto, per lo scoppio della bomba).
Il viaggio in Italia di Valentino attraversa un’umanità allo sbando che si riscalda in amplessi provvisori: borsaneristi col messale il mano, cronisti pronti a barattare la propria integrità per un posto a Roma, santi e carogne, tutti disposti a giocarsi la morte in una mano sola.
La saga di Mattiuzza è una cavalcata dolente in un piccolo mondo dimenticato dalla storia che torna a bussare alla memoria. Una guerra che sembra non finire mai lega i padri e i figli: obbedire è un verbo che si usa malvolentieri e fare finta di non avere più nulla da perdere è l’unico modo per fregare il destino.
Se il padre è stato due anni nelle trincee del Carso nella Prima guerra, il figlio Giovanni nella Seconda sarà tra quelle migliaia di morti che, secondo Mussolini, erano necessari a far sedere l’italia tra le grandi nazioni del mondo. «Lontananza» lo hanno chiamano i commilitoni, non si sa se perché arriva da una manciata di pietre appena sopra Udine o perché non parla quasi mai.
Finirà a Gela, in Sicilia, insieme a migliaia di altri fanti che niente possono contro le navi cariche di uomini e contro gli aerei degli Alleati. Emigrazione, guerra, miseria, trincea e solitudine: Mattiuzza le attraversa in punta di penna seguendo il filo della vita in cui la vendetta è, a volte, l’unica forma di giustizia.