La gatta regista della commedia di Tanizaki
Il testo del ’36 (Neri Pozza)
Lui, lei, lei e l’altra. Combinazione che poi diventa: l’altra, lui, lei, lei. Ma cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia, perché l’aritmetica degli affetti che Jun’ichiro Tanizaki trasforma in aritmetica del narrare è implacabile. La gatta, Shozo e le due donne (uscito per Neri Pozza nella traduzione di Gianluca Coci) è infatti un romanzo breve, quasi una novella, firmato nel 1936 dal grande autore giapponese, che aveva flirtato con l’aura della modernità occidentale. Allestito con una parsimonia di mezzi inversamente proporzionale alla capacità del racconto di cogliere le nuance dell’abbandono e della rivalsa, è un compatto congegno che a distanza di quasi un secolo e di intere stagioni letterarie funziona senza dover ricorrere a una irrealistica umanizzazione del felino del titolo. Il gatto è gatto, gli uomini uomini.
La storia — quella sì — parte felpata, con passi felini. Un figlio di mamma un po’ inetto e parecchio egoista, lo Shozo del titolo, ha ripudiato la moglie Shinako per accasarsi con la cugina Fukuko. Più vivace, quasi spregiudicata, porta con sé il vantaggio di una buona dote, in grado di contrastare il declino della bottega di famiglia, che perde clienti. Da un matrimonio all’altro Shozo si è fatto accompagnare da Lily, gatta ormai anziana alla quale è affezionato, morbosamente affezionato, tant’è che spesso «nella sua testa c’era spazio solo per la gatta, e gli importava poco o nulla di ciò che pensava la moglie». E qui, piano piano, la micia si prende la scena sia dei giochi familiari sia della scrittura che li restituisce. Quando la prima consorte di Shozo spedisce una lettera alla nuova compagna dell’ex marito chiedendole Lily indietro, Fukuko supera le resistenze di lui e acconsente. Da parte di Shinako non si tratta «né di uno scherzo malizioso né di una mera provocazione»: la moglie abbandonata ha preparato, forse, un piano perfetto. «Quando le era venuta l’idea di impossessarsi della gatta — leggiamo — si era stupita lei stessa della sua genialità: tutte le volte che Shozo fosse andato col pensiero alla sua Lily, inevitabilmente sarebbe stato costretto a pensare anche a lei». Comincia così la nuova convivenza fra la prima moglie (costretta a campare facendo la sartina, ospitata dalla famiglia della sorella) e la gatta, una circostanza sulla quale Shinako proietta la propria frustrazione cercando di riabilitarsi ai propri stessi occhi: «Se ora erano tornate a vivere sotto lo stesso tetto, significava che dovevano essere unite da qualche arcano vincolo risalente alle vite precedenti» perché ormai «aveva la netta sensazione di comprendere con chiarezza i sentimenti di Lily».
Al nuovo ménage condiviso da Shinako e Lily — descritta minuziosamente e credibilmente nei suoi comportamenti di felino domestico — corrisponde lo spalancarsi di crepe e tensioni nella casa che Shozo e Fukuko condividono, secondo tradizione, con la cinica madre di lui. L’uomo vacilla, sbanda. Al netto del finale, che va taciuto, è comunque la gatta a trionfare, o meglio il suo ruolo: di catalizzatrice di passioni, di veicolo di destini, di perno narrativo. Mariti e mogli appaiono come comparse di sé stessi. La commedia umana di Tanizaki qui ha un animale come regista.