«Mia mamma non mi capiva e ha amato solo mio fratello Le botte le ho sempre prese»
Lo scrittore: scrivo per senso del dovere, ma mi sono stufato
passeggiare per Latina con Antonio Pennacchi si rischia la pelle in vari modi. Perché a un passante che impreca per fatti suoi lui indirizza un «ma vaffa’ tu» o perché si ferma in mezzo alla strada al culmine di un’invettiva partita dalla necessità di superare l’antifascismo e approdata all’iliade, a Priamo e Achille «vittime e carnefici che si abbracciano, piangendo ambedue sul dolore del mondo». Maestro, azzardo timidamente, quell’auto ci stava venendo addosso. Niente. Pennacchi resta lì. «Priamo piange pensando a suo figlio Ettore ucciso da Achille, Achille lo abbraccia e piange pensando a suo padre, al suo amico Patroclo morto e pure a Ettore, che lui ha ucciso, e a se stesso, che verrà ucciso. E quindi insieme piangono sulla condizione umana, che è la stessa, a prescindere dalla parte in cui stai». Io: maestro, siamo sempre in mezzo alla strada. Pennacchi, però, sta pensando a sé «fasciocomunista» come nel titolo di un suo celebre libro, e alle botte, vere e metaforiche, date e prese stando da una parte o dall’altra. «Capisce? Io ero Achille e ho dovuto fare Achille. Tu eri Ettore e hai fatto Ettore, ma siamo uguali. È il polemos, è la legge del più forte. Allora, questo Paese deve non perdonare, ma elaborare. Invece, nel 2020, siamo ancora al paradigma antifascista». S’avvia al marciapiede, scuote il capo, avvilito. «Io parlo, parlo, e lei chi sa che scrive».
Andare in giro per Latina con lo scrittore che nel 2010 ha vinto lo Strega raccontando in Canale Mussolini Latina e la sua gente, quei migranti venuti qui a domare paludi, è come trovarsi in un romanzo dal vivo. Ti mostra la Banca d’italia dove nel ’44 i tedeschi fecero saltare il caveau che suo zio svuotò con la carriola, fregando sia i tedeschi sia gli americani, e questa è la scena che apre Canale Mussolini parte seconda. Ti porta nelle piazze dove ha manifestato prima da fascista, poi da sindacalista, quando per trent’anni è stato operaio in fabbrica, e ti porta nel triangolo di vie dove si picchiava col fratello, che si chiamava Gianni, ma è Manrico nel Fasciocomunista e nel film Mio