Roberto Cingolani Lo scienziato (poco social) dell’intelligenza artificiale «Crollo del ponte Morandi e malattie neurologiche? Eventi prevedibili»
F in dall’infanzia, il fisico Roberto Cingolani, primatista italiano nell’intelligenza artificiale e nei robot, aveva ben chiaro che cosa non voleva essere da grande: un brocco. «A 10 anni correvo in bici, a 20 capii che non sarei mai arrivato al Giro d’italia: smisi. A 18 facevo kick boxing nell’accademia di Jean Paul Pace, ma non potevo diventare campione del mondo juniores: smisi. Prima della laurea mi dilettavo di grafica pubblicitaria e fumetti, ricavandoci qualche soldo: smisi. Però disegno ancora: mi aiuta a riflettere». Pensa e ripensa, a 16 anni ebbe una folgorazione: cominciò a partecipare ai concorsi Philips per giovani ricercatori. La prima volta non andò in finale, la seconda vinse l’edizione italiana, la terza quella europea. Dalla quarta fu escluso per eccesso di notorietà.
Questione di imprinting domestico. Il padre Aldo, morto a soli 50 anni, era docente universitario di Fisica. La sorella Silvia è ordinaria di Matematica all’università di Bari. Il fratello Gino ha la cattedra di Biologia alla Jefferson University di Philadelphia. La moglie Nassia, greca, è una fisica esperta in Scienza dei materiali. Il primo figlio, Aldo, è un ingegnere chimico. Il secondo, Alex, nel 2021 si laureerà in Chimica. Il terzo, Alkis, a 10 anni già eccelle in tutte le materie.
Dalle camere della sua casa di Genova il professor Cingolani vedeva il ponte Morandi. Quando dirigeva l’iit, l’istituto italiano di tecnologia, ci passava sopra tre volte al giorno per raggiungere un laboratorio. «Vibrava», ricorda. Ma quello che ha raccontato di recente al Cnb, il Comitato nazionale di bioetica, va oltre: «Si poteva prevederne il crollo».
Come fa ad affermarlo?
«Leonardo, società in cui sono responsabile dell’innovazione tecnologica, con Telespazio ed E-geos ha costruito negli anni un eccezionale database di immagini satellitari. Grazie alle tecnologie odierne, si presterebbero a un’analisi delle oscillazioni millimetriche di tutti i viadotti, basata su raffronti storici. Ma è lo Stato che deve decidere».
Al Cnb ha anche detto che si può pronosticare una malattia neurologica filmando come cammina una persona.
«Ci sono sistemi di computer vision che nelle traiettorie degli arti misurano deviazioni predittive di future patologie. Un clinico potrebbe diagnosticarle solo osservando il paziente per 24 ore filate».
Ma non si occupava di umanoidi?
«Da giovane sognavo di salvare il mondo e andare in Africa a fare il medico. Poi ho capito che avevo bisogno di un ambiente più matto di un ospedale. Comunque i robot, interagendo con i bambini, possono aiutare a sconfiggere disturbi del neurosviluppo quali l’autismo».
La chiamano «lo Steve Jobs italiano».
«Non lo sono. Lui era un genio. Io cerco solo di fare del mio meglio».
Che effetto le fa avere una voce biografica sulla Treccani a soli 58 anni?
«Me lo sta dicendo lei. Non lo sapevo. Sono un eremita digitale».
Perché ha lasciato l’iit di Genova?
«Nel 2004 le tecnologie umanoidi erano fiction. Oggi sono sulla bocca di tutti. Nonostante l’ostilità iniziale, abbiamo messo insieme 1.700 cervelli di 60 nazioni, età media 34 anni, 40 vincitori di finanziamenti del Consiglio europeo per la ricerca, decine di startup. Ma non volevo che diventasse il Cingolani institute of technology. Dopo tre mandati, ho rifiutato il quarto con 18 mesi di anticipo. Il testimone è passato in buone mani, quelle di Giorgio Metta, robotico di fama mondiale, giovane e brillante».
Ha dovuto trovarsi un lavoro.
«Alessandro Profumo me l’ha offerto subito: “Leonardo vuole accelerare sull’innovazione. T’interessa?”. C’erano da redigere i programmi su big data, sistemi guidati dall’intelligenza artificiale, tecnologie per elettrificare gli aerei, sostenibilità. Il tema non è che cosa venderemo fra quattro anni, ma nel 2040».
Perché quando nei tg vedo i robot che compiono gesti umani resto turbato?
«Perché l’homo sapiens si sente minacciato dalle specie diverse, in questo caso la ruspa, che è più forte di noi ma scema, sposata con il computer, che fa i conti senza braccia e senza gambe ma non ci spaventa perché lo spegniamo».
Elon Musk in Tesla non vuole operai. Dice che «gli umani sono d’intralcio».
«Discordo in toto. Gli riconosco il merito di aver trasformato l’auto in un telefonino con il motore elettrico. Sapiens rimane l’essere più creativo che esista e che esisterà, quello che ha consentito a Musk di diventare Elon Musk. Dicendo che l’inventiva gli è d’intralcio, l’imprenditore contraddice sé stesso. Non vengo da una famiglia ricca e so che la macelleria sociale passa attraverso l’uso eccessivo e indiscriminato delle tecnologie».
A chi risponde un umanoide?
«Fantastico quesito. Facciamo un’ipotesi: un pc ha la capacità di calcolo di un uomo, lo mettiamo nella testa di un robot e otteniamo il superuomo. Ma il cervello di questo computer non è fatto di acqua e non pesa un chilo e mezzo: è grande come una stanza e consuma 10 megawatt. Allora ci siamo inventati il cloud, un cervellone centrale cui collegare con il 5G tante macchine individualmente stupidotte. Il problema è lì. Chi governa il cloud? Gli Stati? Le grandi compagnie? Questa specie non ha un equivalente biologico. E poiché in migliaia di anni non siamo riusciti a educarci, tant’è vero che facciamo ancora le guerre, ora temiamo che le macchine intelligenti siano cretine come noi».
Gli androidi hanno diritti?
«I nostri nascono dal fatto che vogliamo continuare a esistere come specie. La macchina non ha l’apparato riproduttivo. Noi abbiamo impiegato oltre 4 miliardi di anni a evolverci dal batterio a ciò che siamo. Capisco che è fantascienza, però non posso escludere che fra un milione di anni gli umanoidi siano progrediti sino ad acquistare coscienza di sé. Dobbiamo disegnare il futuro remoto, come faceva la scuola greca 30 secoli fa». aggiunto il debito ambientale».
Lei studia l’intelligenza artificiale. Non le pare che latiti quella naturale?
«La prima è utile se sfruttata con intelligenza naturale, cioè cum grano salis. A preoccuparmi è la stupidità naturale, perché nessuno ha creato quella artificiale: troppo complicata da copiare».
L’una finirà per sostituire l’altra?
«No. L’auto non sostituisce le gambe».
Ma che cos’è l’intelligenza artificiale?
«Un database che immagazzina dati e un sistema che li analizza: nel cervello sono i processi mentali, nel computer gli algoritmi. Tutto questo di per sé non è niente, solo un oggetto cieco, muto, sordo. Devo attaccarlo ai sensi: immagini prese dal satellite, velocità rilevata dai sensori. Infine occorrono gli attuatori: un motore, un corpo che metta in pratica le decisioni. Il tutto va alimentato. Ed ecco un organismo. Ma non ha il sistema nervoso, quindi serve il wifi, il 4G, il 5G».
Il robot è più intelligente dell’uomo?
«Il pc da ufficio compie 100 milioni di operazioni al secondo, come un moscerino della frutta. Il topo 100 miliardi, come un cervello elettronico. L’uomo 1 miliardo di miliardi, come i server di Google, che bruciano energia quanto un’intera città, mentre a noi basta una merendina. Detto ciò, sappiamo che cos’è l’intelligenza? No, quindi non dovrei parlare neppure di quella artificiale. È più intelligente Einstein, Picasso o Ronaldo? Nessuno può dirlo. Però in un compito verticale, tipo una partita a scacchi o un’orbita da calcolare, la macchina è di sicuro più performante dell’uomo».
Delegare le funzioni mentali a pc e telefonini rischia di atrofizzare il cervello. La traversata di Greta non è stata per nulla ecologica
L’androide ha un limite: non piange.
«Come l’autobus. E per fortuna. Teniamocela stretta per noi questa facoltà».
Abbiamo delegato parecchie funzioni al pc e allo smartphone, liberando risorse mentali. Eppure dilaga l’idiozia.
«Non abbiamo una Ram di silicio nella testa. Trasferendo a questi strumenti tutto ciò che sapevamo a memoria, rischiamo di atrofizzare il nostro cervello. Ci siamo illusi che la velocità di scambio delle informazioni ci favorisse. Invece il 90 per cento di esse risulta inutile e ci fa solo perdere tempo».
Che mezzi usa per viaggiare?
«La bici. La moto, anche sulla tratta Genova-roma. L’auto. L’aereo».
Il catamarano no?
«L’imbarcazione con cui Greta Thunberg ha raggiunto gli Usa è una macchina da Formula 1, per nulla ecologica dal punto di vista dei materiali. E il suo staff l’ha seguita su un volo di linea».
A quale tecnologia rinuncerebbe?
«Mi bastano le mail e il telefono fisso. Il cellulare devo usarlo per lavoro, ma ne farei volentieri a meno. Per me essere social vuol dire parlare con cinque persone guardandole negli occhi».
● Nel 2005 diventa direttore scientifico dell’istituto italiano di tecnologia a Genova, che lascia nel 2019 per entrare in Leonardo spa