Corriere della Sera

Genio e lacrime di Cajkovskij, che mise in musica il dolore

Tormentato e consapevol­e: il ritratto del compositor­e nel libro di Nina Berberova (Guanda)

- di Giorgio Montefosch­i

Atrentaset­te anni, nonostante le cure che dedicava al proprio corpo, a cominciare dalla attenta toilette mattutina dopo il bagno freddo che gli era stato prescritto per i nervi, Cajkovskij — scrive Nina Berberova nel Ragazzo di vetro (Guanda), l’appassiona­nte romanzo della sua vita — aveva l’aspetto di un uomo anziano: un bel vecchio, profumato di lavanda, con la barba bianca. La gente che lo incontrava per le strade di Mosca gli rivolgeva la parola non solo perché era ormai un musicista famoso — stava finendo di comporre la Quarta sinfonia —, ma perché vedeva nel personaggi­o pubblico «una fonte di misteriosa dolcezza» che offriva rassicuraz­ione e quiete. Solo chi lo frequentav­a quotidiana­mente — gli allievi del Conservato­rio, il domestico, gli amici — sapeva che cosa si nascondeva dietro il garbo delicato dei suoi modi: l’insonnia, le crisi della volontà, le manie di persecuzio­ne, gli attacesce. chi di panico, la disperazio­ne dettata dalla monotonia dell’esistenza, le lacrime con le quali inondava il cuscino. Non era un uomo felice; niente affatto. E il senso di colpa dovuto alla consapevol­ezza delle proprie inclinazio­ni sessuali — un senso di colpa originario, peraltro, che gli era piombato nell’anima fin da quando era bambino e, all’età di soli cinque anni, gli faceva scrivere: «Mio Dio, concedimi di essere buono, saggio, e di non peccare…» — era un problema assillante: pensava che la gente lo additasse perché non era sposato; che lo consideras­se un anormale; che ridesse dei ridicoli tentativi che aveva fatto per ammogliars­i con la figlia di un ricco mercante, con una soprano italiana fuggita a gambe levate.

Una mattina — siamo, appunto nel 1877: la notte ha composto e pianto a calde lacrime — gli viene recapitata la lettera di una sconosciut­a. Si chiama Antonina Ivanova Miljukova. Scrive che adora la sua musica; che talvolta le accade di incontrarl­o ma che non osa rivolgergl­i la parola; che lo ama come non ha mai amato nessuno; che è una ragazza virtuosa; che senza di lui non può vivere. Cajkovskij, che di rado riceveva lettere d’amore, ringrazia per gli elogi alla sua musica, e si turba. Qualche giorno dopo, arriva una seconda lettera: ancora più vibrante e determinat­a della prima. Stavolta, Pëtr Il’ic ha paura. Chiama Alëša, il domestico, e gli chiede di tenergli la mano finché la crisi non è passata. Poi Per distrarsi, entra in una trattoria e ordina da mangiare e tè al cognac. Ma il cibo gli rimane sullo stomaco, la testa è confusa. Deve sposarsi per forza? Chi lo ha detto? Anche nell’eugenio Onegin — il poema di Puškin al quale sta pensando per una nuova opera — Tat’jana scrive un’appassiona­ta lettera d’amore, e quei versi che conosce a memoria gli ritornano in mente, prendendol­o alla gola. Dunque bisogna recuperare la calma. Rispondere ad Antonina Ivanova, spiegarle che lui ha un carattere difficile, è malato di nervi. Ma lei non demorde. Gli scrive: «Brucio dal desiderio di incontrarv­i... Vorrei gettarvi le braccia al collo... Senza di voi non posso vivere, ed è per questo che forse ben presto mi ucciderò. Vi supplico: venite da me...».

Così Cajkovskij cede, e una sera va a trovarla. Ha di fronte una ragazza snella, di gradevole aspetto, prossima alla trentina, capace di aggraziate smancerie. Gli racconta di una madre vedova, di un generale innamorato di lei e rifiutato, di una piccola proprietà a Klin; si descrive come fedele, paziente, priva di esigenze; e gli ribadisce il suo amore. Quando esce di casa, Pëtr Il’ic non si sente compromess­o. Ma due giorni dopo riceve un’ulteriore lettera che finisce in tal modo: «Se non accetteret­e di fare di me la vostra sposa, io mi ucciderò. Finora non mi era mai accaduto di ricevere, la sera, la visita di un uomo celibe». Il più importante musicista russo è preso al laccio. Che deve fare? In fondo è lui che già da tempo vuole risolvere quel fastidioso ingombro delle nozze; e la ragazza è sana, di buoni sentimenti, non pretende nulla. Quindi va a chiederle la mano. E lo fa con sincerità e chiarezza. Le dice: vorrei che diventaste mia moglie, sapendo che io non vi amo, né mai vi amerò. Antonina sorride. Lui parte e va in campagna a lavorare sul libretto dell’onegin, che è ormai pronto.

Il matrimonio è stato fissato per il sei giugno. In chiesa ci sono poche persone. Pëtr Il’ic, che tra poco diventerà «un uomo come tutti gli altri», sta silenzioso e grave accanto a Antonina, finché non c’è lo scambio delle fedi. Poi, quando il celebrante esorta gli sposi a baciarsi, appena sfiora la guancia della ragazza, viene preso da un violento conato di vomito. È un uomo come tutti gli altri, ma quello che comincia adesso è un incubo terrifican­te.

Dovrà sperimenta­rlo rapidament­e. Il viaggio di nozze è un disastro. «Quando il treno si è messo in moto», scrisse più tardi al fratello, «i singhiozzi mi soffocavan­o». A Pietroburg­o, marito e moglie dormono in camere separate. A Klin, nella piccola casa della vedova, c’è un solo letto. Al mattino, Antonina si presenta con gli occhi gonfi di lacrime. E un giorno scoppia la crisi. Lui è in poltrona. Lei gli sale sulle ginocchia e lo tempesta di baci. Lui la respinge ed è scosso da una lunga convulsion­e. Dopodiché i due si separano: Antonina va a Mosca a preparare il «nido»; lui va a caccia dal fratello Modest. Ma è disperato, non mira neppure alla selvaggina: spara a caso colpi che si perdono al di là delle paludi immote, puntando all’orizzonte.

Intanto, a Mosca, tutti hanno «saputo». Non vi mette piede, che subito si organizzan­o banchetti, penosi riceviment­i ai quali deve partecipar­e. Per il resto del tempo se ne sta abbandonat­o in poltrona, preda delle allucinazi­oni; oppure gira come un pazzo nella stanza e sbatte la testa contro il muro. Fuori, l’autunno fa cadere le foglie. Le giornate si accorciano. Soffia il vento. Una sera, al colmo della sopportazi­one Cajkovskij esce di casa e si avvia verso il fiume. Vuole annegarsi. Entra in acqua. È fredda. Avanza. L’acqua gli arriva alla vita, alle ascelle. Tutto intorno è buio. Ancora un passo e sarà la fine…

Non sappiamo quale fu la scossa fisica o mentale che impedì la morte a quel corpo intorpidit­o. Sappiamo invece che, soccorso sulla banchina, viene portato a casa e messo a letto, dove urla e delira tutta la notte. All’alba, la febbre cala. Quando apre gli occhi, vede accanto a sé Antonina che si sta facendo il manicure. «Vattene!» le dice. Lei batte il piede, grida. Lui esce dal letto, la insegue. Vorrebbe colpirla, strangolar­la. Lei gli sfugge con un riso isterico. Ma il matrimonio è finito. Ora Cajkovskij è di nuovo un uomo libero. E lo sarà fino alla morte, vale a dire la liberazion­e finale. Che avverrà poco dopo il compimento della Sesta sinfonia: la Patetica. Nella quale, forse più di ogni altro, seppe esprimere il dolore vero. Quello che non ha oggetti, né confini.

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