LO SPIRITO ANTICIPATORE DI BORROMINI
Esistono amori che durano una vita. Anche intellettuali, come quello che lega da sempre Paolo Portoghesi, urbanista e storico dell’architettura, a Francesco Borromini. Raccontò Portoghesi al «Corriere della Sera», in un’intervista nel febbraio 2018: «Sono nato con Sant’ivo alla Sapienza negli occhi, abitavo in via di Monterone, scrissi il mio primo testo su Borromini a sedici anni. Di lui amo la libertà di operare all’interno della classicità, ma facendola muovere, quasi risvegliare, aprendo una nuova stagione creativa, spalancando spazi di sperimentazione all’architettura e, quindi, la via alla stessa avanguardia».
Oggi, appena superati gli 88 anni di età e quindi a 72 anni da quel saggio adolescenziale, Portoghesi rinnova una sua definitiva dichiarazione d’amore per quel genio dell’architettura col monumentale Borromini. La vita e le opere (Skira, pagine 630, 90), edizione completamente rinnovata, riscritta e aggiornata rispetto alla prima del 1990. Di fatto una nuova opera: dettagliata, ricca di apparati scientifici (stupefacente la riproduzione di tutti i disegni) e con un corredo fotografico — in larghissima parte realizzato dallo stesso Portoghesi come evidente propaggine del testo — che affida con fiducia al bianco e nero (tranne nella breve sezione sui materiali e i colori) l’analisi del dettaglio, dell’inventiva, della meraviglia estetica.
La parabola della monografia non cede ad artifici. Si comincia con la «Storia di un’anima», e si comprende subito quanto a Portoghesi interessi principalmente quel punto non architettonico: la complessa, tormentata e infine autodistruttiva personalità borrominiana, come indispensabile chiave di lettura delle sue conseguenti opere. Poi la sequenza dei capitoli: le prime opere, le opere della maturità, le ultime opere, le opere minori non realizzate o distrutte, i disegni, il linguaggio, le materie e il colore, infine gli accurati e puntuali apparati come la cronologia che guida e orienta in una vita difficile. La parte iniziale sull’anima, soprattutto nel finale sulla morte, che Borromini decise per sé con la stessa lucidità con cui affrontò e documentò la propria agonia, ha un’autonomia letteraria che travalica il saggio scientifico. Il viaggio è ovviamente magnifico: Sant’ivo, Palazzo Barberini, Sant’agnese in Agone, Propaganda Fide e San Carlino. Portoghesi spiega tutto con estrema chiarezza, mettendo da parte il tipico idioma da addetti ai lavori.
Intrigante il lavoro sul linguaggio, come l’importanza della metafora, per esempio quella dell’angelo (le ali paragonate alle volute di un capitello ionico, nei capitelli della lanterna di Sant’andrea della Valle), o la chiave dell’antitesi che, scrive Portoghesi, «si fonda su polarità di valori e tende a contrapporre le parti tra loro perché dal contrasto meglio risaltino le loro specifiche qualità». La conclusione sul linguaggio indica un metodo «in cui ragione e sentimento, calcolo ed emotività si fondono come aspetti di una volontà unitaria di liberazione. Liberazione dal dogma di una classicità intesa come principio di autorità e insieme di regole immutabili, liberazione dal tecnicismo miope e rinunciatario della generazione precedente, liberazione dall’empirismo generico e approssimativo dei suoi rivali, assorti nella celebrazione del presente». Bernini? Come non pensarci. Ma il giudizio rinvia alla prima intuizione del Portoghesi sedicenne che vide in Borromini l’anticipatore di sperimentazioni e avanguardie. Veramente un amore che ha dato luce, ispirazione e senso all’intera vita di un architetto.