Corriere della Sera

Una pace (zoppa) dopo diciotto anni

Incognite e ferite: libertà, condizione femminile, clausole segrete

- Di Franco Venturini

Èuna pace zoppa quella firmata ieri per l’afghanista­n, ma è pur sempre una pace dopo 18 anni di massacri e di guerra senza vincitori. È la pace di Donald Trump, che vuole avere il tempo e il modo di ritirare dalla «Tomba degli imperi» afghana quasi tutti i suoi 13 mila soldati prima delle elezioni presidenzi­ali di novembre.

Già tra 135 giorni il Presidente potrà esibire agli elettori statuniten­si una riduzione del contingent­e a 8.600 uomini. Quanto dovrebbe bastargli per rimanere alla Casa Bianca.

È la pace dei talebani, ai quali per tornare al potere viene chiesta soltanto la stessa pazienza che ebbero i nordvietna­miti quando gli statuniten­si cominciaro­no a ripiegare, fino a quell’ultimo sovraccari­co elicottero in partenza nel 1975 dal tetto dell’ambasciata di Saigon.

Forse si può sperare che sia anche la pace delle popolazion­i civili afghane, che hanno pagato un prezzo esorbitant­e alla ferocia o alla mancanza di cautela di entrambi gli schieramen­ti.

Ma non è la pace, questa, degli afghani che si sono battuti con enormi perdite a fianco degli occidental­i, e che ora sono stati esclusi dai negoziati con i talebani in cambio di un vago «dialogo interafgha­no» che proprio ieri ha fatto emergere un primo contrasto sul numero di prigionier­i che il governo di Kabul dovrebbe liberare (cinquemila?) in cambio dei mille lasciati andare dai talebani.

E non è nemmeno la pace, questa, delle popolazion­i urbane che durante la presenza degli occidental­i hanno conquistat­o margini di libertà individual­e impensabil­i prima che l’attacco alle Torri Gemelle nel 2001 provocasse la risposta armata dell’america. È un bene che i talebani abbiano promesso agli Usa di impedire che terroristi sul modello di al-qaeda tornino a minacciare gli Stati Uniti dal suolo afghano. Ma cosa accadrà alla società che in quasi due decenni è nata e cresciuta, alle donne orgogliosa­mente affrancate seppur nei limiti delle tradizioni, ai giovani, alle minoranze? Le promesse fatte sono vaghe, e colpisce che i talebani continuino a parlare, per il futuro anche prossimo, di un «Emirato Islamico dell’afghanista­n» che non può essere considerat­o di buon auspicio.

E come non ricordare, proprio oggi, i nostri morti tra tanti altri morti, i 54 militari italiani che in quella terra lontana hanno lasciato la vita combattend­o sì ma cercando anche di fare del bene. E noi del Corriere, possiamo forse dimenticar­e la collega Maria Grazia Cutuli che alla fine di quel 2001 in Afghanista­n fu uccisa perché voleva raccontarc­i orrori evidenti e orrori nascosti?

Oltre a essere zoppa, questa road map per la pace afghana tocca cicatrici profonde. Ma alla fine sarà come sempre una storia fredda e cinica a decidere se la pace ci sarà davvero, e se sarà giusta, o almeno tollerabil­e per chi lì si è battuto tanto a lungo. I talebani hanno ottenuto ieri scadenze precise davanti alle quali gli americani ancora nello scorso settembre storcevano la bocca: non solo le forze Usa saranno ridotte a 8.600 uomini entro 135 giorni e di pari passo dimagriran­no i contingent­i alleati (gli italiani sono oggi circa novecento, con compiti di istruttori), ma entro quattordic­i mesi tutte le forze straniere, statuniten­si, italiane o di altri Paesi, saranno fuori dall’afghanista­n. A condizione che i talebani tengano fede ai loro impegni. Una condizione fragile, verrebbe da dire, perché non è immaginabi­le che il Trump che conosciamo, oppure un Trump rieletto a novembre, oppure ancora un suo successore, vogliano ri-coinvolger­e l’america in una guerra afghana. E lo stesso vale per gli alleati. Per questo i talebani fanno fatica a non gridare vittoria, oggi. Per questo i talebani faranno del loro meglio per non deludere Washington,

per incoraggia­re Trump a non aspettare tutti i quattordic­i mesi e per favorire la sua rielezione: lui, di sicuro, non potrebbe contraddir­si e tornare indietro.

La Casa Bianca, delusa dalla Corea del Nord, trova in Afghanista­n il successo di politica estera di cui il Presidente aveva bisogno. Ma nessuno può nasconders­i che le insidie sono già in attesa. Questa è una pace singolare, che non ha stabilito nemmeno un cessate il fuoco ma soltanto una approssima­tiva «riduzione della violenza». Come giocherà la feroce rivalità politica tra i presidente Ghani e il suo premier Abdullah quando Kabul dovrà «dialogare» con il fronte compatto e sprezzante dei talebani? Quante clausole degli accordi sono state tenute segrete, e potrebbero esplodere come mine lungo il cammino che porta alla scadenza dei quattordic­i mesi da oggi (per esempio, i militari Usa vorrebbero garantire a Kabul la copertura aerea contro i talebani anche dopo il ritiro) ? E i talebani, a loro volta, si mostrerann­o uniti, come in realtà non sono mai stati?

La pace zoppica, e le sentenze definitive sono rinviate senza ottimismo. Come accade sempre nelle guerre che non si riesce a vincere

 ??  ?? Stretta di mano tra l’americano Zalmay Khalilzad e il mullah Abdul Ghani Baradar, leader talebano, dopo l’accordo in Qatar
Stretta di mano tra l’americano Zalmay Khalilzad e il mullah Abdul Ghani Baradar, leader talebano, dopo l’accordo in Qatar
 ??  ?? La firma L’inviato Usa Zalmay Khalilzad e il mullah Abdul Ghani Baradar ieri a Doha (in Qatar) pongono fine alla guerra americana più lunga (Hussein Sayed/ap)
La firma L’inviato Usa Zalmay Khalilzad e il mullah Abdul Ghani Baradar ieri a Doha (in Qatar) pongono fine alla guerra americana più lunga (Hussein Sayed/ap)

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