Corriere della Sera

LE NOSTRE INCERTEZZE

- Di Maurizio Ferrera

Perché il coronaviru­s provoca così tanto allarme? Dopotutto la nostra vita quotidiana è già punteggiat­a di rischi che possono mettere a serio repentagli­o la nostra salute. Questa volta ci troviamo tuttavia in una situazione molto particolar­e: il rischio è accompagna­to da una radicale incertezza, che rende imprevedib­ili gli effetti delle nostre scelte. Il virus è insidioso e mutevole. Il test di positività non è sempre affidabile. Se si è positivi, non si sa se si avranno sintomi oppure no. Se ci si ammala, si può finire in ospedale e persino in terapia intensiva, però non è detto. Il contagio può portare al decesso ma, pare, solo in presenza di altre condizioni debilitant­i. In Giappone qualcuno si è ammalato due volte, dunque la guarigione non garantireb­be l’immunità. E, naturalmen­te, non esistono farmaci efficaci né vaccini. Questa elevata incertezza pone un vincolo quasi paralizzan­te alla nostra razionalit­à. Anche se non ne siamo consapevol­i, le scelte quotidiane riflettono sempre un qualche tipo di calcolo di probabilit­à sui costi e i benefici delle azioni che intraprend­iamo.

Il coronaviru­s ha inceppato i nostri strumenti interiori di misurazion­e. Ma c’è di più. L’incertezza impedisce l’imputazion­e di responsabi­lità. Di chi è la colpa per ciò che sta accadendo? Perché proprio a me?

L’epidemia sta provocando diseguagli­anze e sofferenze del tutto casuali fra persone e territori, e dunque percepite come immeritate. È la sindrome di Giobbe: si sfalda l’illusione neo-moderna di aver finalmente compreso i segreti della realtà e di poterla controllar­e. La natura torna ad essere percepita come imprevedib­ile e cieca.

L’incertezza incide anche a livello collettivo. Per ora almeno, la scienza sembra incapace di indicarci la strada «giusta». La socialità diventa una fonte di pericolo. Persino la famiglia può diventare uno scudo bucato: ciascuno resta solo con il proprio corpo. È una fase, certo, le cose migliorera­nno, impareremo a conoscere il virus, recuperere­mo le nostre capacità di calcolo quotidiano. Non è una catastrofe, fa bene chi esorta a non farsi prendere dal panico. Ma il momento è difficile, inutile negarlo. Anche la politica tentenna, può procedere solo per prove ed errori: una dinamica che sembra fatta apposta per attirare il biasimo verso chi decide.

Nei rapporti fra territori (pensiamo alle polemiche fra le nostre regioni) e soprattutt­o fra i diversi Paesi scattano purtroppo spirali di sfiducia e risentimen­to. Abituata ad essere amata nonostante i suoi tanti difetti, l’italia fa fatica ad accettare il crescente isolamento. In Messico una nave di italiani in vacanza è stata accolta da grida ostili degli abitanti locali: fuera, fuera! In Europa, nell’ultimo decennio siamo stati considerat­i come nazione indiscipli­nata e peccatrice sul versante dei conti pubblici. È forte la tentazione di additarci adesso come capro espiatorio per la diffusione del virus.

Vi è poi la questione dell’impatto economico. Come il contagio sanitario, anche le perdite economiche provocate dall’epidemia sono «casuali»: il turismo è più colpito delle banche, i trasporti più dell’industria. Se non sappiamo come difenderci dal contagio, è giusto imporre divieti e chiusure che danneggian­o l’economia e potrebbero causare una vera e propria recessione? Come testimonia­no le vicende degli ultimi giorni, si stanno creando due linee di tensione: fra sfera della salute pubblica e sfera economica; fra categorie e settori danneggiat­i e quelli non danneggiat­i. Priva di punti di riferiment­o oggettivi, la politica subisce un sovraccari­co di responsabi­lità che ne limita l’efficacia decisional­e in un contesto di visibilità e aspettativ­e crescenti. Che fare?

I rischi misurabili possono essere gestiti tramite politiche selettive di socializza­zione dei costi, più o meno ispirate alla logica assicurati­va. In situazioni di incertezza come quella che stiamo attraversa­ndo, l’unica soluzione equa ed efficace è invece la condivisio­ne su base universali­stica. Siamo molto fortunati ad avere un Servizio sanitario nazionale che si fa carico dell’assistenza per tutti. Negli Usa il tampone faringeo e il test di positività da soli costano più di tremila dollari e le assicurazi­oni private fanno storie per rimborsarl­i. Oltre ai costi medici, anche le perdite economiche dovranno essere compensate seguendo il principio della condivisio­ne. Se non si agisce in fretta, il conto da accollare alla collettivi­tà rischia di essere salato. Quale collettivi­tà? Quella nazionale, prima di tutto. Ma anche quella europea, di cui facciamo parte avendo creato una unione economica e monetaria. Di fronte al coronaviru­s non ci sono Paesi bravi o cattivi, siamo tutti egualmente esposti a una sorte che può accanirsi a Sud come a Nord, a Ovest come a Est. Per questo oggi la Ue è chiamata a una nuova grande prova: fare whatever it takes (tutto ciò che è necessario, come disse Mario Draghi nel 2012 durante la crisi dell’euro) per combattere l’epidemia, dando effettiva concretezz­a a quella «clausola di solidariet­à» fra i Paesi membri che è stata introdotta dieci anni fa, col Trattato di Lisbona.

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