LE NOSTRE INCERTEZZE
Perché il coronavirus provoca così tanto allarme? Dopotutto la nostra vita quotidiana è già punteggiata di rischi che possono mettere a serio repentaglio la nostra salute. Questa volta ci troviamo tuttavia in una situazione molto particolare: il rischio è accompagnato da una radicale incertezza, che rende imprevedibili gli effetti delle nostre scelte. Il virus è insidioso e mutevole. Il test di positività non è sempre affidabile. Se si è positivi, non si sa se si avranno sintomi oppure no. Se ci si ammala, si può finire in ospedale e persino in terapia intensiva, però non è detto. Il contagio può portare al decesso ma, pare, solo in presenza di altre condizioni debilitanti. In Giappone qualcuno si è ammalato due volte, dunque la guarigione non garantirebbe l’immunità. E, naturalmente, non esistono farmaci efficaci né vaccini. Questa elevata incertezza pone un vincolo quasi paralizzante alla nostra razionalità. Anche se non ne siamo consapevoli, le scelte quotidiane riflettono sempre un qualche tipo di calcolo di probabilità sui costi e i benefici delle azioni che intraprendiamo.
Il coronavirus ha inceppato i nostri strumenti interiori di misurazione. Ma c’è di più. L’incertezza impedisce l’imputazione di responsabilità. Di chi è la colpa per ciò che sta accadendo? Perché proprio a me?
L’epidemia sta provocando diseguaglianze e sofferenze del tutto casuali fra persone e territori, e dunque percepite come immeritate. È la sindrome di Giobbe: si sfalda l’illusione neo-moderna di aver finalmente compreso i segreti della realtà e di poterla controllare. La natura torna ad essere percepita come imprevedibile e cieca.
L’incertezza incide anche a livello collettivo. Per ora almeno, la scienza sembra incapace di indicarci la strada «giusta». La socialità diventa una fonte di pericolo. Persino la famiglia può diventare uno scudo bucato: ciascuno resta solo con il proprio corpo. È una fase, certo, le cose miglioreranno, impareremo a conoscere il virus, recupereremo le nostre capacità di calcolo quotidiano. Non è una catastrofe, fa bene chi esorta a non farsi prendere dal panico. Ma il momento è difficile, inutile negarlo. Anche la politica tentenna, può procedere solo per prove ed errori: una dinamica che sembra fatta apposta per attirare il biasimo verso chi decide.
Nei rapporti fra territori (pensiamo alle polemiche fra le nostre regioni) e soprattutto fra i diversi Paesi scattano purtroppo spirali di sfiducia e risentimento. Abituata ad essere amata nonostante i suoi tanti difetti, l’italia fa fatica ad accettare il crescente isolamento. In Messico una nave di italiani in vacanza è stata accolta da grida ostili degli abitanti locali: fuera, fuera! In Europa, nell’ultimo decennio siamo stati considerati come nazione indisciplinata e peccatrice sul versante dei conti pubblici. È forte la tentazione di additarci adesso come capro espiatorio per la diffusione del virus.
Vi è poi la questione dell’impatto economico. Come il contagio sanitario, anche le perdite economiche provocate dall’epidemia sono «casuali»: il turismo è più colpito delle banche, i trasporti più dell’industria. Se non sappiamo come difenderci dal contagio, è giusto imporre divieti e chiusure che danneggiano l’economia e potrebbero causare una vera e propria recessione? Come testimoniano le vicende degli ultimi giorni, si stanno creando due linee di tensione: fra sfera della salute pubblica e sfera economica; fra categorie e settori danneggiati e quelli non danneggiati. Priva di punti di riferimento oggettivi, la politica subisce un sovraccarico di responsabilità che ne limita l’efficacia decisionale in un contesto di visibilità e aspettative crescenti. Che fare?
I rischi misurabili possono essere gestiti tramite politiche selettive di socializzazione dei costi, più o meno ispirate alla logica assicurativa. In situazioni di incertezza come quella che stiamo attraversando, l’unica soluzione equa ed efficace è invece la condivisione su base universalistica. Siamo molto fortunati ad avere un Servizio sanitario nazionale che si fa carico dell’assistenza per tutti. Negli Usa il tampone faringeo e il test di positività da soli costano più di tremila dollari e le assicurazioni private fanno storie per rimborsarli. Oltre ai costi medici, anche le perdite economiche dovranno essere compensate seguendo il principio della condivisione. Se non si agisce in fretta, il conto da accollare alla collettività rischia di essere salato. Quale collettività? Quella nazionale, prima di tutto. Ma anche quella europea, di cui facciamo parte avendo creato una unione economica e monetaria. Di fronte al coronavirus non ci sono Paesi bravi o cattivi, siamo tutti egualmente esposti a una sorte che può accanirsi a Sud come a Nord, a Ovest come a Est. Per questo oggi la Ue è chiamata a una nuova grande prova: fare whatever it takes (tutto ciò che è necessario, come disse Mario Draghi nel 2012 durante la crisi dell’euro) per combattere l’epidemia, dando effettiva concretezza a quella «clausola di solidarietà» fra i Paesi membri che è stata introdotta dieci anni fa, col Trattato di Lisbona.
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